Conoscenza è democrazia. La battaglia perché siano pubblici i dati Covid

Come è noto, il decreto del Ministro della Salute del 30 aprile 2020 ha individuato 21 indicatori, costituiti da dati epidemiologici e organizzativi che obbligatoriamente le regioni debbono monitorare e comunicare con periodicità al Ministero. Sulla base dei dati in essi contenuti, il Comitato Tecnico Scientifico formula la proposta al Ministro per l’attribuzione dei “colori” alle regioni, vale a dire per la inclusione di ciascuna di esse nelle tre fasce di restrizioni.

E’ di pochi giorni orsono la polemica scoppiata tra il Presidente della Regione Lombardia e il Ministero della salute, scaturente dal fatto che la inclusione della regione nella fascia rossa, di massima restrizione, è stata determinata da una errata rappresentazione della realtà.
Regione e Ministero si rinfacciano vicendevolmente la responsabilità dell’errore nella acquisizione o nella trasmissione o nel trattamento dei dati, mentre gli operatori economici lombardi lamentano oltre 100/200 milioni di euro di danni da lucro cessante e preparano una class action pubblica.

In disparte l’attribuzione della responsabilità dell’incidente, che qui non interessa, questo inqualificabile episodio induce a riprendere con forza le considerazioni esposte nei mesi scorsi in merito alla legittimità, ma anche alla inopportunità e inadeguatezza della gestione “segreta” governativa del rischio pandemico.
Molto si è discusso e scritto sulla legittimità costituzionale delle misure restrittive assunte con DPCM, più o meno autorizzati a ciò da decreti legge, e sulla costituzionalità di questi stressi decreti legge che hanno autorizzato l’esercizio di attività legislativa da parte del Governo al di fuori delle procedure degli articoli 76 e 77 (cioè in caso di decreto legislativo su delega legislativa del Parlamento e di decreto legge).

Le posizioni sono e sono rimaste diverse, ma su un punto la dottrina e i commentatori hanno raggiunto un concorde atteggiamento. La legittimità degli interventi restrittivi comunque è legata alla loro corretta motivazione quali provvedimenti amministrativi e questa dipende dalla corrispondenza alla realtà dei presupposti di fatto su cui si basa la scelta amministrativa, vale a dire dalla accuratezza dei dati e delle informazioni sulla pandemia. La pubblicità della motivazione, quindi, si accompagna necessariamente alla pubblicità dei presupposti e quindi dei dati a favore dei destinatari dei provvedimenti, vale a dire di tutti i cittadini.

Infatti, sia i principi secolari del diritto amministrativo, sia più specificatamente la legge (esattamente l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241) impongono che ogni provvedimento amministrativo sia motivato sia con riferimento alle leggi che lo giustificano, sia agli scopi amministrativi che si prefigge, sia ai presupposti, vale a dire alla situazione della realtà che richiede l’intervento. E questa ultima non può che essere dimostrata con la pubblicità dei dati su cui l’amministrazione basa la sua scelta. In questo caso tali dati non sono altro che quelli del decreto ministeriale di cui si è discorso.

Non solo. L’evoluzione dei rapporti tra la P.A. e il cittadino avutasi nell’ultimo secolo ha rovesciato la obsoleta convinzione che sia sempre da presumere la correttezza dell’operato della P. A., fino addirittura a richiedere la querela di falso per contestare dati erronei, ed ha anzi introdotto un principio ormai acquisito, quello del controllo sociale dei cittadini sull’operato sulle motivazioni della P.A. espresso nel diritto all’accesso a dati, documenti, informazioni in possesso della P.A. Un diritto di accesso che si dispiega non solo nei confronti di coloro che abbiano bisogno dei dati per tutelare i propri interessi (previsto dall’art 22 della citata legge n. 241 del 1990) ma ora nei confronti di tutti i cittadini che possono così esecutare quel controllo sociale che diviene così il vero fondamento della democrazia nel rapporto autorità/libertà nei confronti dello Stato (art. 5, decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33).

Si tratta del così detto “accesso generalizzato” che non richiede nemmeno di dimostrare un interesse specifico a conoscere i dati, ma presuppone solo che essi siano in possesso della amministrazione e, per ciò solo, siano resi disponibili a tutti. Per di più nel così detto “formato aperto”, cioè a dire in maniera disaggregata, quanto più possibile nel rispetto della riservatezza, e in maniera informatica tanto che possano essere letti, studiati, confrontati e manipolati da un qualsiasi programma (come per intenderci Excel) per poterli “trattare” con scopi statistici o scientifici.
Se i dati dei 21 indicatori che abbiamo citato fossero stati resi pubblici, come avrebbero dovuto, la comunità scientifica si sarebbe avveduta dell’errore nell’affaire Lombardia (da chiunque sia stato commesso) e non si sarebbero verificati questi ulteriori danni economici a nostri concittadini ignari e innocenti.
Per questo motivo sono state assunte recentemente iniziative per ottenere quella che in gergo si chiama la “ostensione” dei dati, cioè la messa a disposizione di tutti sui siti del ministero, che quindi non è solo un obbligo ormai previsto dalla legge, ma anche la condicio sine qua non per la legittimità dei DPCM, i quali, allo stato, proprio per la loro mancanza di motivazione, di trasparenza nei dati e di mancata dimostrazione dei presupposti di fatti (rappresentati appunto da quei dati) sono da considerarsi irrimediabilmente illegittimi (come per altro hanno cominciato a decidere la giurisprudenza amministrava e civile).
Tra queste iniziative meritano di essere ricordate quella della Fondazione Einaudi, nell’agosto scorso, per ottenere la pubblicità dei verbali del CTS, conclusasi positivamente, e la più recente iniziativa di Lettera150.
Lettera150 ha richiesto la messa a disposizione sul sito di tutti i dati relativi ai 21 indicatori che le Regioni sono tenute a inviare periodicamente al Ministero. Allo scadere dei trenta giorni concessi dalla legge per accogliere l’istanza, in caso di silenzio o diniego, sarà ovviamente adito il TAR del Lazio, la cui giurisprudenza, favorevole già pronunciata nei mesi scorsi, dà garanzia che la istanza sarà accolta.

Questa battaglia per la trasparenza è l’ultimo e vero baluardo di una democrazia ormai ferita e la pervicacia con cui il Governo mantiene il segreto su questi dati, quasi fossero i piani militari per la difesa nazionale, alimenta i sospetti e le dietrologie, del tutto inevitabili alla presenza di una volontà conclamata di agire nell’ombra e nel segreto delle stanze di Palazzo Chigi.

Inevitabile la domanda: se tutto è in regola, perché tanto pretestuoso e strumentale riserbo?

Claudio Zucchelli, già presidente di sezione del Consiglio di Stato

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