Porti Italiani e Recovery Fund

Prof. Ing. Giuseppe R. Tomasicchio
Ordinario di Costruzioni Idrauliche e Marittime nell’Università del Salento
Presidente dell’Associazione di Ingegneria Offshore e Marittima
Direttore del laboratorio EUMER (www.eumer.eu)
Referente per la ricerca dell’Università eCampus

È di questi mesi l’intenso dibattito attorno alla nuova diga di Genova il cui costo presunto, ma non del tutto certo, è di 1 miliardo di euro. L’ingente investimento sul porto di Genova ha il pregio, tra gli altri, di portare nuovamente attenzione alla portualità Italiana e al suo ruolo nella logistica internazionale.

Da almeno trenta anni, i tanti candidati politici che si sono succeduti hanno sottolineato che l’Italia è un molo nel Mediterrneo e che si sarebbe dovuto prevedere i porti con infrastrutture di collegamento veloci ed efficienti allo scopo di portare le merci e le persone immediatamente in Europa, sottraendo ai porti del nord Europa parte del prezioso traffico proveniente da e per il far East. Purtroppo, quanto asserito da un candidato politico è rimasto testimone per il candidato successivo: poco o nulla è stato fatto per collegare, ad esempio, il porto di Gioia Tauro con le direttrici ferroviarie europee. L’immobilismo è stato anche determinato dalla farraginosità legislativa sia per la gestione dei porti, con la loro interazione con Enti e territori circostanti, e sia per la ben nota difficoltà Italiana di attuare le opere programmate.

Tanto gravame ha determinato un sempre crescente ritardo infrastrutturale nel settore portuale che, nel Mediterraneo, ha avvantaggiato, dapprima, la Spagna che ha profittato al massimo dei fondi europei per ampliare/modernizzare i suoi porti e, in seguito, le nazioni nord Africane che, per il minor peso della burocrazia e del costo del lavoro, sono state scelte per creare diversi porti hub ex novo.

Si è perso il numero dei convegni in cui si è lamentata la difficoltà di intervenire in Italia in favore dell’efficienza dei porti mediante interventi di approfondimenti dei fondali; il che non significa solo dragare i fondali per inseguire con le proprie infrastrutture le navi madre di sempre maggiore dimensione e pescaggio, ma anche eseguire il semplice ripristino dei fondali in porti soggetti all’interrimento. Dopo 20 anni (dal D.M. 24.01.1996) di continua emanazione di norme e linee guida sempre più articolate e anche contraddicentisi che hanno difatti paralizzato i porti, nel 2016, si è giunti ai D.M. 172 e 173 del 2016. Ma tanto non è ancora sufficiente per ottenere condizioni di concorrenza pari a quelle dei porti Europei; soprattutto a causa dei valori soglia per la classificazione dei sedimenti da dragare, più bassi in Italia rispetto al resto d’Europa. In merito, ancora una volta, Bruxelles non si attiva per individuare un procedimento unico Europeo e lascia che i maggiori porti del nord Europa continuino a godere della scarsa competitività dei porti d’Italia, molo nel Mediterraneo. Si auspica che il novello Ministero per la Transizione Ecologica dedichi attenzione anche al tema dei dragaggi, in termini economici e normativi, con una rinnovata logica rispetto agli ultimi 25 anni, distinguendo tra ciò che è bene per l’ambiente da ciò che è bene per l’ambientalista.

Non si può trascurare le difficoltà dei porti Italiani nel programmare ed eseguire le opere, anche quelle più trascurabili quali varchi e volumi per il controllo doganale. Infatti, dopo decenni di lavoro del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici per definire percorsi snelli e flessibili per la pianificazione portuale, si presentano ancora oggi notevoli difficoltà nella gestione delle aree comprese nel perimetro del piano regolatore portuale che hanno determinato recenti Sentenze di TAR e Consiglio di Stato a cui va il merito di avere definitivamente chiarito che la pianificazione portuale ha altro oggetto rispetto a quella urbanistica e che quest’ultima è limitata alle aree aventi funzione di cerniera tra porto e città.

E ancora, va evidenziato che nel nostro Paese la fase di sdoganamento coinvolge anche sino a diciotto diverse amministrazioni per un numero complessivo di sessantotto procedimenti preliminari e/o contestuali. Il tempo necessario ad assolvere tali passaggi è una ulteriore causa dell’emarginazione dei porti Italiani dagli scenari della logistica Internazionale.

L’odierna ritrovata attenzione allo sviluppo dei porti è legata alla disponibilità dell’eccezionale Recovery Fund. Ma proprio tale eccezionalità deve spingere il Paese a dotarsi di strumenti normativi e tecnici che garantiscano l’impiego sino all’ultimo euro di quelli destinati ai porti. Pertanto, occorre che per massimizzare gli effetti economici e sociali del Recovery Fund, ci si doti di una nuova legge di riordino in materia di portualità che sostituisca la vetusta Legge 84/1994, sofferente perché assoggettata a troppi rimaneggiamenti. Il compito della nuova legge sarà soprattutto quello di fare sintesi di tutta l’esperienza accumulata negli ultimi 25 anni consentendo, tra gli altri, un rilevante alleggerimento del peso burocratico nella gestione e programmazione dei porti.

1 thought on “Porti Italiani e Recovery Fund”

  1. È esattamente così Roberto. In questo momento, tuttavia, dovrebbe esserci uno sforzo nazionale per convincere Bruxelles dell’assurdità di chiedere ai porti di pagare le tasse come le altre imprese. Dà un’occhiata al mio post su Linkedin qualche tempo fa; un post che è stato selezionato da LinkedIn come un post principale.

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