La sfida della pianificazione energetica nazionale: un piano per l’energia rinnovabile, o per l’energia sostenibile?

Sono passati poco più di due anni dalla pubblicazione del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), ma gli impatti della pandemia prima e della guerra in Ucraina poi rendono necessaria una riflessione sul tema della pianificazione energetica nazionale, di seguito affrontata in termini divulgativi e volta alla immediata comprensione della sfida che il Paese si trova ad affrontare in uno scenario in cui le condizioni al contorno sono mutate sia in tema di costi che di disponibilità di materie prime, incluse le risorse energetiche.

Volendo riassumerne in poche righe obiettivi e strategia, il PNIEC fissa nel 2030 un obiettivo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra ripartito tra i settori “Emissions Trading Scheme” (ETS, comprendenti industrie energetiche, settori industriali energivori e aviazione) e non ETS (trasporti, residenziale, terziario, industria non ricadente nel settore ETS, agricoltura e rifiuti) che dovranno registrare rispettivamente un -43% e un -30% rispetto all’anno 2005. Tale obiettivo viene raggiunto dal PNIEC attraverso:

  1. la copertura del 30% del consumo finale lordo di energia da fonti rinnovabili, accompagnato da
  2. un obiettivo indicativo di riduzione dei consumi pari al 43% dell’energia primaria e al 39,7% dell’energia finale rispetto all’anno 2007.

In estrema sintesi, il PNIEC punta sulla elettrificazione del settore termico e dei trasporti e, allo stesso tempo, promuove l’espansione delle fonti rinnovabili non programmabili quali fotovoltaico ed eolico.

È utile iniziare l’analisi di questa strategia partendo con un semplice quesito: è possibile affermare che l’energia rinnovabile sia anche sostenibile? Contrariamente a quanto si possa pensare, i due termini non sono sinonimi. Infatti, esiste una sostanziale differenza tra i concetti di rinnovabilità e sostenibilità. L’energia rinnovabile è prodotta a partire da fonti che si rigenerano naturalmente ad una velocità maggiore o uguale rispetto a quella con cui vengono consumate, ovvero quando le fonti abbiano una durata praticamente illimitata rispetto al nostro orizzonte temporale. Sono universalmente riconosciute come fonti di energia rinnovabile il sole, il vento, le maree, la geotermia, le biomasse (queste ultime due scontano chiare prescrizioni per poter essere definite come rinnovabili). La sostenibilità, invece, si riferisce all’impatto che l’utilizzo di una determinata risorsa ha sotto diversi punti di vista, a partire da quello ambientale (ad esempio, emissioni inquinanti, emissioni clima-alteranti, consumo di suolo e risorse), ed includendo anche tematiche di natura tecnica (ad esempio, l’efficienza nella produzione, distribuzione e utilizzo di un determinato bene), economica e sociale. Misurare la sostenibilità non è affatto semplice, e richiede un approccio complesso e multidisciplinare volto a confrontare e pesare impatti di natura differente.

Di seguito si propone un esempio utile a comprendere quanto sopra esposto focalizzandosi su un concetto troppo spesso trascurato, ovvero quello di densità energetica.

La centrale di Altomonte produce energia elettrica con un ciclo combinato alimentato a gas naturale. La centrale ha una potenza nominale installata pari a circa 800 MW, produce annualmente circa 6,4 TWh (cioè 6,4 miliardi di kWh) e occupa una superficie all’incirca pari a 78.000 m2. Dividendo l’energia prodotta in un anno dalla centrale per la superficie da essa occupata, otteniamo un valore di produzione “specifica” pari a circa 82 MWh/m2 (cioè 82.000 kWh per metro quadrato di superficie occupata dalla centrale), che esprime la capacità di questo impianto di produrre energia per m2 di suolo occupato.

Quanto vale la densità energetica di un impianto fotovoltaico? E quanto suolo dovrei occupare per arrivare a produrre annualmente la stessa quantità di energia generata dalla centrale di Altomonte?

Per rispondere al quesito occorre fare alcune ipotesi. Immaginiamo, ad esempio, di utilizzare moduli fotovoltaici con performance nella media (20% di rendimento di picco) e di installarli ad Altomonte, in cui valutiamo un numero annuo di ore sole equivalenti pari a 1500 ore (ovvero, ad Altomonte l’energia ricevuta da una certa superficie dal sole in un anno equivale all’energia che avrebbe ricevuto la stessa superficie in 1500 ore considerando un irraggiamento pari a quello massimo di 1 kW/m2). Ciò significa che, nella migliore delle ipotesi, con un impianto fotovoltaico in un anno ad Altomonte è possibile produrre 300 kWh/m2, o 0,30 MWh/m2. Considerando, invece, il rendimento complessivo dell’intero impianto fotovoltaico, includendo fenomeni non sempre evitabili come l’ombreggiatura ed il non perfetto orientamento rispetto alla radiazione solare, otteniamo una più realistica densità energetica pari a 0,06 MWh/m2. Possiamo tradurre questo numero nella superficie dell’impianto fotovoltaico necessario per replicare il medesimo output (annuo) generato dalla centrale di Altomonte, ovvero quasi 110 milioni di metri quadrati di superficie occupata dall’impianto fotovoltaico, o 4,3 GW di potenza di picco installata. In Figura 1 viene mostrato il confronto tra le due opzioni: centrale a gas naturale e centrale fotovoltaica. 

Figura 1. Confronto tra superficie occupata dalla Centrale di Altomonte e impianto fotovoltaico in grado di generare nell’arco dell’anno lo stesso quantitativo di energia prodotto dalla Centrale di Altomonte.

L’esempio dimostra plasticamente come l’energia solare sconti una densità energetica oltre mille volte inferiore degli impianti alimentati a fonte tradizionale, e che sicuramente si produce un impatto sul consumo di suolo che è enormemente maggiore rispetto a quanto accade con una centrale tradizionale.

La limitata densità energetica ha ovviamente una ricaduta anche sulla quantità di materiale essenziale a produrre il numero di pannelli fotovoltaici necessari alla generazione del quantitativo di energia desiderata. L’estrazione, la lavorazione, il trasporto delle materie prime e la loro successiva trasformazione in semilavorati e componenti, a loro volta da assemblare in pannelli fotovoltaici, inverter, strutture di supporto, cavi elettrici, etc… e che poi, a fine vita, andranno smontati ed eventualmente riciclati, sono tutti passaggi inevitabili a cui si associano impatti sull’ambiente e di tipo socio-economico. Se consideriamo, ad esempio, i circa 49 TWh di fotovoltaico aggiuntivi previsti dal PNIEC al 2030, ciò si traduce nella installazione di circa 33 GW di picco di pannelli fotovoltaici (considerando un valore medio annuo in Italia di ore sole equivalenti pari a 1500 ore, assolutamente ottimistico). La attuale capacità produttiva mondiale di pannelli ammonta a circa 180 GW, ed è principalmente concentrata in Asia (fonte: statista.com, 2022). Pertanto, anche il reperimento dei pannelli fotovoltaici diviene elemento critico del piano nazionale, poiché si basa sul reperimento sul mercato di tecnologia con disponibilità limitata, prevalentemente prodotta non in Italia e fuori dalla UE, e rispetto a cui si identificano difficoltà rispetto alla disponibilità e reperimento di alcuni materiali, come la silice (fonte: Raw materials demand for wind and solar PV technologies in the transition towards a decarbonised energy system, EC JRC, 2020).

Un altro esempio interessante è quello della biomassa. La Superficie Agricola Utile (SAU) italiana è pari a circa 13 milioni di ettari. Immaginiamo di voler coltivare l’intera SAU italiana a biomassa dedicata, ovvero per soli scopi energetici, trascurando volutamente gli impatti (devastanti) sulla filiera agro-alimentare che tale approccio produrrebbe. Ebbene, poiché la resa per ettaro media da colture dedicate la possiamo indicare nell’intorno dei 200 GJ/anno, ovvero una densità energetica pari a circa 0,005 MWh/m2 (senza considerare il successivo processo di combustione o gassificazione), se ne deduce che per soddisfare la domanda di energia primaria italiana attingendo alle sole biomasse dovremmo coltivare circa 38 milioni di ettari di terreno con biomassa dedicata, che è il triplo della SAU in Italia.

La letteratura scientifica è concorde nel rilevare una limitata densità energetica delle fonti rinnovabili di energia rispetto alle fonti tradizionali (ad esempio: The spatial extent of renewable and non-renewable power generation: A review and meta-analysis of power densities and their application in the U.S., Energy Policy, 2018; Life-cycle energy densities and land-take requirements of various power generators: A UK perspective, Journal of the Energy Institute, 2017). Pertanto, con il crescere della quota di energia rinnovabile che introduciamo nel nostro sistema energetico, aumentano inevitabilmente, ed in maniera esponenziale, le conseguenze negative che tale scelta ha sul consumo di suolo e di materie prime ed i relativi impatti ambientali e socio-economici.

Occorre quindi accompagnare la pianificazione energetica con una pianificazione territoriale ed urbanistica, se l’installazione di impianti rinnovabili avviene in contesto urbano, ovvero paesaggistica qualora l’installazione avvenga, invece, in area rurale, avendo ben chiaro che la limitata densità energetica delle diverse tecnologie pone la produzione di energia rinnovabile in concorrenza con altre attività che sono “land-consuming”. Difatti, in un contesto urbano, là dove la densità abitativa è maggiore, il consumo di suolo e superfici trova concorrenza con settori e funzioni quali l’edilizia abitativa, produttiva o dei servizi, o le infrastrutture viarie, mentre in ambiente rurale la concorrenza principale è data dall’agricoltura.

Si sottolineano di seguito alcune criticità aggiuntive rispetto al tema già affrontato della densità energetica, e comunque già evidenti all’epoca del rilascio del PNIEC, ed oggi ancor più rilevanti.

Un primo punto critico riguarda la gestione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili non programmabili. Come indicato nel PNIEC, “la realizzazione di una vasta capacità di accumulo, e soluzioni di stoccaggio che prevedano l’utilizzo dei vettori energetici alternativi (idrogeno/metano sintetico), sia concentrata a servizio della rete sia diffusa, è parimenti indispensabile a mitigare alcune criticità e disporre di adeguate risorse di flessibilità”.

Il tema dello stoccaggio dell’energia prodotta da fonti rinnovabili non programmabili è essenziale poiché la rete elettrica è molto poco flessibile e necessità di una regolazione continua della potenza immessa al fine di soddisfare la domanda istantanea proveniente dalla varie utenze collegate alla rete stessa. Se consideriamo l’andamento dei consumi di energia elettrica in Italia, ritroviamo un andamento simile a quello riportato in Figura 2, in cui si evidenzia una escursione media che va da un minimo di circa 20 GW consumati ad un massimo di 60 GW. Ora, se si considera l’incremento di rinnovabili elettriche (eolico e fotovoltaico) previsto dal PNIEC al 2030 rispetto al 2017, otteniamo circa 70 TWh all’anno aggiuntivi da immettere in rete e da gestire anche con forme di accumulo. Pertanto, l’incremento di produzione di energia da fonti rinnovabili non programmabili previsto dal PNIEC pone in maniera evidente, ma non sufficientemente attenzionata, il tema del come rendere disponibile all’utente questo surplus di energia quando richiesta, e non quando generata.

Figura 2. Andamento annuo dei consumi elettrici per il triennio 2017-2019 (fonte: Terna).

Difatti, la quantificazione della capacità di accumulo non viene “esplorata” all’interno del documento, che lascia un grande punto interrogativo sulla sostenibilità del piano sopra esposto, stanti alcuni evidenti limiti dati dal mercato. Secondo un recente studio pubblicato da Wood-Mackenzie (2022), la capacità produttiva mondiale di batterie ioni-litio raggiungerà nel 2030 i 5,5 TWh. Oggi il 90% del mercato è gestito dalla Cina ed è assorbito all’80% dal settore automotive. Anche se il medesimo studio ipotizza al 2030 una riduzione della quota di mercato del gigante asiatico a vantaggio di produzioni sia negli Stati Uniti che in Europa, rimane comunque il rischio legato all’approvvigionamento delle materie prime per la realizzazione delle batterie, di cui l’Europa – e l’Italia in particolare – è sprovvista e che ha visto impennare i costi negli ultimi mesi sia per l’incremento di domanda da parte del mercato che per le tensioni internazionali generate dal conflitto in Ucraina.

È del tutto evidente come, stante la capacità produttiva mondiale attesa di batterie e la concorrenza sia tra Stati che tra settori (elettrico vs. trasporto), è impensabile gestire “la vasta capacità di accumulo” necessaria per la sola Italia ricorrendo esclusivamente alle batterie. L’attuazione di tale piano è quindi sostenibile, pur rimanendo complesso, solo se declinato su un orizzonte temporale di decenni, e non di qualche anno, e compatibilmente con un piano di industrializzazione europea del settore della produzione delle batterie che, a partire dalla estrazione delle materie, ha sinora goduto della delocalizzazione degli impatti ambientali e sociali derivanti dalla filiera delle batterie al di fuori dei propri confini.

D’altro canto, il PNIEC suggerisce anche di gestire in maniera alternativa lo stoccaggio di energia elettrica da fonte rinnovabile, ricorrendo alla produzione di vettori energetici quali idrogeno e metano di sintesi attraverso la realizzazione di impianti cosiddetti “Power-To-Gas” (P2G). Un esempio di impianto P2G è quello in cui l’energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile trova una conversione in forma chimica attraverso la elettrolisi dell’acqua in idrogeno e ossigeno, con la produzione di quello che viene identificato come “idrogeno verde”. L’idrogeno può costituire un interessante vettore energetico, in grado di favorire il passaggio di energia da un settore all’altro: conversione di picchi di produzione da fonte elettrica rinnovabile in idrogeno, che può essere utilizzato in un secondo momento come combustibile alternativo nel settore trasporti, nel settore termico, oppure essere riconvertito in energia elettrica. Dal punto di vista concettuale l’ipotesi del ricorso all’idrogeno come elemento di stoccaggio di energia è affascinante, ma, anche in questo caso, occorre fare i conti con la realtà. Ad esempio, la banca d’affari statunitense Jeffries ha recentemente stimato nel proprio rapporto “Plugging into the hydrogen ecosystem” (2021) che la capacità mondiale di produzione di elettrolizzatori raggiungerà nel 2030 i 30-40 GW complessivi. Volendo azzardare una capacità di accumulo energetico di idrogeno verde corrispondente a tale capacità produttiva, immaginando 2000 ore per anno di funzionamento per un elettrolizzatore (ipotesi in vero molto a favore della tecnologia…), si otterrebbe una capacità annua di accumulo legata alla produzione di elettrolizzatori pari a 70 TWh. E, così come per le batterie, anche per gli elettrolizzatori occorre prestare attenzione alla presenza di materiali più o meno critici da reperire sul mercato, e sulla loro distribuzione geografica (fonte: Critical materials for water electrolysers at the example of the energy transition in Germany, International Journal of Energy Research, 2021).

Se è pur vero che è possibile minimizzare la capacità di stoccaggio della energia rinnovabile elettrica attraverso una strategia efficiente che preveda il dispacciamento prioritario delle fonti rinnovabili elettriche (già in essere), la regolazione delle centrali a combustibile fossile (come quella di Altomonte citata in precedenza) ed il ricorso all’accumulo in bacini tramite pompaggio (la capacità italiana è stimata in 8 TWh/anno, ma attualmente se ne usano circa 2 TWh), confrontando la capacità produttiva mondiale con la sola domanda potenziale italiana, non è possibile riscontrare la sostenibilità della proposta, in quanto mancano oggi e mancheranno al 2030 i componenti tecnologici principali (batterie e/o elettrolizzatori) per riuscire anche solo ad immaginare di raggiungere quella capacità di accumulo utile a rendere la rete elettrica in grado di gestire contemporaneamente la domanda di energia elettrica, termica (attraverso le pompe di calore) e per i trasporti (veicoli elettrici e/o alimentati con idrogeno verde) previsti dal PNIEC.

Un ulteriore elemento critico: ogni sistema di stoccaggio ha un suo rendimento. Le batterie perdono col passare del tempo, e ad ogni ciclo di carica e scarica, capacità di immagazzinare energia. Allo stesso modo, la conversione di energia elettrica in combustibili quali idrogeno o metano di sintesi sconta delle inefficienze: il processo di elettrolisi, ad esempio, converte con i sistemi più moderni solamente il 70% circa di energia elettrica in idrogeno (anche se la competizione mondiale per alzare i rendimenti è quantomai vivace). L’idrogeno, poi, deve essere compresso e trasportato verso l’utenza finale (con rendimenti nell’intorno del 70%) e va da sé che se poi utilizziamo l’idrogeno per scopi quali produrre calore, oppure alimentare un veicolo, o riprodurre energia elettrica, dovremo scontare un ulteriore rendimento. Questo significa perdere una quota rilevante di energia durante lo stoccaggio ed il successivo trasporto e utilizzo, come sinteticamente riportato in Figura 3 nel caso di produzione di energia a partire dal sole, sia per lo stoccaggio in batteria che per lo stoccaggio sotto forma di idrogeno verde.

Figura 3. Rendimento di conversione e stoccaggio dell’energia fotovoltaica in batteria ed in idrogeno verde.

Il prodotto di tutti questi rendimenti ci dice che da 100 kWh di energia proveniente dal sole, in realtà l’utente finale ne va ad utilizzare, nel caso di conversione in idrogeno verde, solo il 5%, dovendo tra l’altro ancora scontare il rendimento dell’utenza. Un’altra lettura è che per poter consumare 100 kWh all’utenza, in realtà ne dobbiamo avere dalla nostra sorgente circa 2000 kWh. È pur vero che questa energia, nel caso del sole, ci viene regalata, ma è altrettanto vero che un rendimento del 5% appare tutt’altro che incoraggiante dal punto di vista della sostenibilità.

Infatti, il rendimento di stoccaggio e conversione dell’energia non produce altro che una maggiore richiesta di energia lorda, ovvero un surplus di produzione rispetto a quanto strettamente necessario per soddisfare la domanda in tempo reale. Ancora una volta, volendo sintetizzare: mentre alcuni dei sistemi alimentati a combustibile fossile hanno una notevole flessibilità e capacità di regolazione, consentendo quindi di adattare in poco tempo la offerta di energia elettrica alla domanda e di mantenere in equilibrio la rete elettrica, le fonti rinnovabili elettriche non programmabili come eolico e solare esprimono la loro potenzialità in maniera tutt’altro che sintonica rispetto alla domanda di energia, e pertanto richiedono, da un lato, un sovradimensionamento della potenza installata e, dall’altro, ingenti capacità di stoccaggio.

Per sua natura, una qualunque strategia, una volta stabilito il proprio obiettivo, dovrebbe identificare attraverso un processo di selezione giustificato e ragionato con quali mezzi raggiungere l’obiettivo prefissato con l’obiettivo della sostenibilità. Nel caso del PNIEC, si è scelto a priori di percorrere la strada delle fonti rinnovabili per raggiungere l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2, non valutando attentamente se a questa scelta si accompagnasse anche la sostenibilità della pianificazione proposta. Alla luce delle caratteristiche tecniche sopra richiamate (densità energetica, efficienza di stoccaggio e conversione, dipendenza da materiali critici), e prendendo in considerazione gli equilibri geo-politici in rapido mutamento, occorre ripensare le traiettorie previste al fine di raggiungere con mezzi differenti e sostenibili i medesimi obiettivi fissati dal PNIEC. Alcuni esempi che seguono, si basano su un’idea fondamentale, ovvero: ogni azione, piccola o grande, volta a limitare l’uso delle fonti fossili va perseguita.

  1. Il PNIEC esclude ogni riferimento al nucleare. Gli impianti nucleari consentono la produzione di energia elettrica in continuo, ad un costo competitivo (se riferito ai soli costi di esercizio), con limitato consumo di suolo e senza particolari collegamenti con materiali rari o critici. La decisione di escludere il nucleare dal panorama energetico italiano dovrebbe essere rivalutata, dato che i tempi per la realizzazione di nuovi impianti sono comunque compatibili e similari con quelli richiesti per una transizione realistica verso una quota di rinnovabili crescente.
  2. Pur prevedendo il PNIEC una consistente riduzione dei consumi (circa -40% atteso al 2030), quello che manca è una chiara strategia, che si può ottenere solo attraverso una vera politica di risparmio, anche attraverso il condizionamento di alcune abitudini e comportamenti, ad esempio legate al tema dei trasporti, e attraverso l’efficientamento dell’uso dell’energia.
  3. Occorre incentivare e finanziare tutte le iniziative possibili promosse a livello locale (regionale, provinciale, comunale) che favoriscano l’integrazione o la sostituzione degli impianti esistenti alimentati a combustibile fossile con impianti alimentati da fonti rinnovabili o caratterizzati da maggiore efficienza. Ad esempio, dovrebbero essere largamente incentivate solo quelle forme di produzione di energia rinnovabile i) che abbiano alto potenziale di integrazione con le infrastrutture esistenti, in quanto oltre a produrre energia svolgono altra funzione accessoria, sostituendo quindi elementi architettonici e/o funzionali, e ii) che presentino un limitato impatto dal punto di vista paesaggistico. Un esempio classico è il fotovoltaico integrato, o integrated photovoltaic, in cui, cioè, il pannello fotovoltaico sostituisce un elemento architettonico come le tegole, i rivestimenti esterni a parete o le superfici vetrate, oppure si integri in una attività come la coltivazione in serra o all’aperto (in questo caso si parla di “agrovoltaico”). Una spinta verso l’impiego di sistemi fotovoltaici a maggior contenuto tecnologico potrebbe favorire la nascita di una rinnovata filiera nazionale, in grado di proporsi anche all’estero su un mercato per ora di nicchia, ma destinato a crescere nei prossimi anni. Un altro esempio di utilizzo virtuoso e sostenibile della risorsa rinnovabile è quello delle pompe di calore geotermiche, possibilmente reversibili (ovvero in grado di funzionare come normali gruppi frigoriferi in estate, e come pompe di calore in inverno). Questo tipo di applicazione, sicuramente più costosa delle tradizionali pompe di calore acqua-aria, garantisce però efficienze maggiori (e quindi risparmio di energia elettrica), e inoltre riduce drasticamente l’effetto negativo prodotto in estate (fonte: The city and urban heat islands: A review of strategies to mitigate adverse effects, Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2013), noto come “isola di calore urbana” (o urban heat island). Infatti, mentre i gruppi frigoriferi con condensatore ad aria cedono il calore sottratto agli ambienti da condizionare all’aria esterna – generando l’effetto isola di calore – gli impianti geotermici trasferiscono questo calore al suolo. Va ricordato che la temperatura delle fonti geotermiche non deve modificarsi per lo sfruttamento con pompe di calore o altro sistema, altrimenti la fonte non potrà più essere identificata come rinnovabile: anche in questo caso, occorre essere prudenti ed accorti nella progettazione degli impianti.

MARCO PELLEGRINI
Ricercatore RTD-b, Dipartimento di Ingegneria Industriale, Università di Bologna

CESARE SACCANI
Professore Ordinario, Dipartimento di Ingegneria Industriale, Università di Bologna

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