Salario minimo legale, perché è un affare più politico che giuridico

Il tema del salario minimo legale è da tempo al centro del dibattito, per la verità più politico che giuridico, per la sua forte valenza evocatrice di questioni sociali irrisolte oltre che per la sua capacità di catalizzare le contrapposizioni ideologiche.

Depurato dalle sue vistose “escrescenze” sovrastrutturali e dalle strumentalizzazioni cui si presta divenendo troppo facilmente vessillo degli schieramenti pro-labour, esso si riduce oggi ad un semplice quesito, ovvero se il salario minimo introdotto per legge sia in grado di realizzare il principio di sufficienza retributiva di cui all’art. 36 Cost. meglio di quanto finora non abbia fatto la contrattazione collettiva (colmandone ad esempio le lacune settoriali e territoriali) senza creare scompensi all’interno di un sistema, come quello sindacale italiano, che è andato nel tempo costruendo i propri delicati equilibri al di fuori della Costituzione formale.

Come noto, l’inattuazione (legislativa) dell’art. 36 Cost. in parte qua può essere letta come il continuum di un’altra importante inattuazione, quella dell’art. 39 Cost., seconda parte, la quale prevede un modello di sindacato e di contrattazione collettiva con efficacia erga omnes che, per scelta delle stesse organizzazioni sindacali, è rimasto sulla carta.

Nei 75 anni che ormai ci separano dall’entrata in vigore della Costituzione (1948-2023) il legislatore ha sempre rispettato quella scelta, consapevole che – sotto l’egida del principio di libertà sindacale – il sistema di relazioni collettive italiano ben poteva trarre la sua forza ed anzi operare con maggiore efficacia lontano da recinti normativi precostituiti che ne avrebbero imbrigliato le azioni e contraddetto la vocazione privatistica e volontaristica.

La prima grande obiezione da sollevare nei confronti della tesi per cui il salario minimo legale si porrebbe come correttivo delle lacune/scoperture (si è detto settoriali e territoriali) della contrattazione collettiva è pertanto quella relativa alla sua indubbia rigidità. Il minimo salariale è la più importante tra le componenti della c.d. retribuzione base (i rinnovi contrattuali riguardano nella stragrande maggioranza dei casi la parte economica del contratto, non la normativa) ed è inevitabile che una sua determinazione su base eteronoma non possa che condizionare l’andamento delle trattative, le relazioni di scambio tra le parti, i rapporti di forza tra queste ultime e quindi in altri termini finisca con l’indebolire, esautorandole della loro principale funzione, le organizzazioni sindacali sia dei lavoratori che dei datori di lavoro.

Non è necessario spingersi ad immaginare effetti a cascata (per cui la fissazione del salario per i livelli più bassi dovrebbe avere ricadute anche su quelli più alti) o di appiattimento salariale (tendenza all’assembramento dei livelli di inquadramento più bassi sul minimo legale, con eliminazione delle differenze attualmente esistenti) per ritenere che in un sistema fluido come il nostro il minimo legale rischia di diventare una pericolosa distonia (da cui possono scaturire seri problemi di costituzionale a mente dell’art. 39 Cost.), se non un vero e proprio concorrente dei rinnovi contrattuali.

Una volta garantito il minimo (anzi una volta garantito il salario contrattuale con corresponsioni che normalmente sono superiori a quel minimo) perché mai imprese e sindacati dovrebbero continuare a contrattarne gli aumenti (specie nell’attuale momento di crisi dell’economia) o, nel migliore dei casi, perché non dovrebbero essere tentati di dirottare le eventuali maggiori risorse disponibili su altre voci della retribuzione, ad esempio su premi di produzione/produttività ed altro?

Con l’ulteriore conseguenza della perdita di centralità della contrattazione collettiva nazionale (pure essa indebolita da una maggiore staticità dei minimi) a favore dell’aziendale, ciò che i sindacati tradizionali hanno ad esempio cercato di evitare disinnescando l’art. 8 del d.l. n. 138/2011 (conv. con legge n. 148/2011), ritenuto responsabile di riconoscere eccessiva autonomia alla contrattazione c.d. di prossimità (territoriale o di secondo livello).

Senza parlare poi dell’ulteriore pericolo che, complice il principio di libertà sindacale, si determini una fuga dal contratto collettivo da parte di quelle imprese che già oggi si rivelano attratte da una contrattazione collettiva alternativa a quella dei sindacati più affidabili (definita “pirata”), le quali si troverebbero legittimate ad applicare giusto il minimo legale, magari con qualche incremento di facciata per rispettare la proporzionalità (che non è predeterminata o predeterminabile nel quantum di differenza) anche ai livelli più alti dell’inquadramento. 

Indubbiamente, è vero, il minimo legale potrebbe avere l’effetto positivo di diminuire il contenzioso (e le connesse problematiche di individuazione del contratto collettivo applicabile, atteso che una volta rispettato il minimo esso non potrebbe che essere quello liberamente “scelto” dalle parti), con buona pace dell’utilizzo residuo dell’art. 2070 cod. civ. e con conseguente riduzione della discrezionalità del giudice.

Ma se si pensa che il minimo legale non è comunque in grado di risolvere il problema del lavoro irregolare, sommerso, mal qualificato, ovvero non è in grado di risolvere le vere patologie del sistema, è giocoforza concludere che gli svantaggi della sua introduzione in Italia superano di gran lunga gli improbabili e per lo più solo immaginari (per come vengono prospettati nell’odierno agone politico) vantaggi. 

In questo senso si è espresso il Cnel nelle sue  Osservazioni e proposte pubblicate il 7 ottobre 2023, sottolineando l’impossibilità di risolvere il problema del lavoro povero “con soluzioni semplicistiche” e sollecitando anzi “l’importanza di una visione d’insieme di tutte le componenti del sistema” così da poter legare il tema del salario minimo alla più generale questione salariale e al nodo della produttività. Indispensabile continua infatti ad essere “la centralità del sistema di contrattazione collettiva da intendersi non solo come una fonte di regolazione dei rapporti individuali di lavoro ma, soprattutto, come un meccanismo istituzionale di autogoverno delle dinamiche della domanda e della offerta di lavoro proprio perché sede naturale della compensazione tra istanze economiche e istanze sociali”. La stessa Direttiva Europea n. 2022/2041 sui salari minimi adeguati – osserva ancora il Cnel – non impone l’introduzione del  salario minimo legale, indicando quale alternativa proprio la contrattazione collettiva la cui estensione raggiunga almeno l’80% dei lavoratori. Ogni iniziativa al riguardo deve peraltro essere presa previa consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con le stesse o tra le stesse ed è espressamente stabilito che la menzionata soglia dell’80% costituisce solo un indicatore per l’obbligo di elaborare un piano d’azione, senza che debba ritenersi vincolante per gli Stati membri.

Prof.Fiorella Lunardon
ordinario di diritto del lavoro presso l’Università di Torino

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