Proposte per il contrasto ad alcune forme di reato solo apparentemente “minori”

L’attenzione dei mezzi di comunicazione, per quanto concerne la criminalità, si sofferma, generalmente e direi anche giustamente, sui fatti di maggiore spessore, siano essi episodi c.d. di “sangue” o rappresentino illeciti di vaste proporzioni e di significative ricadute economiche poste in danno della pubblica amministrazione o della collettività. Gli episodi “minori” interessano qualora  siano indicativi, ad esempio, di  fenomeni “sommersi” che si ritiene possano avere ben maggiori dimensioni (si pensi alle periodiche incriminazioni concernenti il personale statale che elude il controllo della “bollatura”); difficilmente invece viene portata alla pubblica attenzione la narrazione dei fatti illeciti che, pur senza assurgere ad una particolare valenza e  dimensione criminogena, finiscono tuttavia col turbare ed “avvelenare” l’esistenza quotidiana, traducendosi in una fonte di preoccupazione e di ansia, e talora di vera e propria paura, per coloro i quali ne sono vittime.

Si tratta peraltro di vicende che richiederebbero un’adeguata “risposta” in chiave normativa e sanzionatoria. A questo fine è rivolta la seguente analisi, in chiave progettuale.    

  1. La violenza o minaccia estorsiva di lavavetri e parcheggiatori abusivi

Il problema riguarda, evidentemente, i soli soggetti che, alle fermate semaforiche, minacciano i conducenti dei veicoli qualora essi non siano disposti a versare loro una qualche somma e che colpiscono finestrini, tergicristalli o altre parti della macchina per costringere gli automobilisti riluttanti a cedere alle minacce a versare loro delle somme, e riguarda parimenti i parcheggiatori abusivi che, avendo  in mano  coltellini od altri oggetti contundenti, preannunciano che con tali strumenti danneggeranno i veicoli parcheggiati, qualora i loro proprietari non aderiscano alla  richiesta di pagamento di una somma di denaro.

Al riguardo già nel passato   questa problematica  aveva suggerito proposte di interventi in materia, che peraltro non hanno mai condotto ad alcun reale effetto pratico.

Non si può parlare al riguardo di una assoluta carenza di disciplina, ma di una constatata ineffettività degli strumenti  utilizzabili.

In concreto l’unico elemento di contrasto è rappresentato dalle disposizioni di natura amministrativa contenute in numerosi Regolamenti di polizia municipale, che per lo più vietano di avvicinarsi ai veicoli in circolazione sulle strade pubbliche o ad uso pubblico al fine di chiedere l’elemosina od offrire servizi quali la pulizia o il lavaggio di vetri o di fanali e dispongono in tal caso il pagamento di ammende di differente entità ed il sequestro del materiale utilizzato per tali attività, quali spazzole e spugne.

Peraltro questi Regolamenti non solo sono disomogenei da città a città ma forniscono una “risposta” che finisce per equiparare i lavavetri “inoffensivi” a quelli realmente minacciosi e violenti, laddove occorrerebbe invece radicalmente differenziare le differenti situazioni.

La sanzione di cento euro di ammenda, prevista da alcuni Regolamenti municipali, se appare  eccessiva per chi si limita a prestare il non richiesto servizio di lavavetri, chiedendo magari con un sorriso un piccolo obolo per tale “servizio”, risulta  del tutto insufficiente per chi  spaventa l’automobilista fermo al semaforo, minacciandolo qualora non aderisca alla sua richiesta, che si traduce in tal caso in un vero e proprio comportamento estorsivo.

A livello penalistico, la condotta, a ben vedere, non è riconducibile alla previsione contravvenzionale dell’art. 669 bis (Esercizio molesto dell’accattonaggio), introdotta in epoca relativamente recente, in virtù dell’art. 21 quater, comma 1, del d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv. con modif. nella l. 1° dicembre 2018, n. 132,  in base al quale, salvo che il fatto costituisca un più grave reato, chiunque esercita l’accattonaggio «con modalità vessatorie»  è punito con la pena dell’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda da euro 3.000 a euro 6.000.

Nel caso in esame, infatti, non siamo in presenza di un soggetto che  esercita l’accattonaggio, ma di un soggetto che, mediante violenza o minaccia, impone l’effettuazione di un pagamento ai conducenti di veicoli a seguito di una prestazione da essi non richiesta.

Siamo in sostanza di fronte ad una forma “minore” di estorsione, corrispondente ad essa sotto molti aspetti, ma che deve essere ovviamente sanzionata con una pena meno elevata rispetto a quella delineata dall’art. 629 (Estorsione) che va da cinque a dieci anni. Si potrebbe dunque ipotizzare la diversa fattispecie criminosa di “estorsione stradale”, rubricabile come art. 629 bis c.p. , volta a sanzionare chiunque, offrendo servizi non richiesti al guidatore di un  veicolo, o comunque avvicinandosi ad un  veicolo in circolazione, mediante violenza o minaccia costringe il guidatore al pagamento di una somma di denaro.

2. Accattonaggio

Per quanto concerne l’accattonaggio, va operata una tripartizione. L’accattonaggio posto in essere da soggetti che vivono ai margini della società, e si limitano a richiedere, con modalità non “moleste”, un aiuto da parte dei loro concittadini non può e non deve essere sanzionato penalmente; del resto l’opinione pubblica considererebbe tale sanzione penale come un’ingiusta vessazione posta a carico di soggetti bisognosi e sofferenti.

Per quanto concerne l’accattonaggio “molesto” la relativa incriminazione è relativamente recente, essendo stata introdotta dal d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv. con modif., nella l. 1° dicembre 2018, n. 132, che ha dato vita all’inedita fattispecie di “Esercizio molesto dell’accattonaggio”, di cui all’art. 669 bis c.p.

Il tema su cui occorrerebbe invece intervenire è rappresentato dall’impiego di minori nell’accattonaggio, sanzionato dall’art. 600 octies c.p. Il presupposto e la finalità di un tale intervento dovrebbe essere non tanto quello di “colpire” chi pone in essere la turpe condotta consistente nello sfruttamento di minori per l’esercizio dell’accattonaggio, quanto quello di “proteggere” il minore, sottraendolo definitivamente ad un contesto familiare e sociale che  impedisce un corretto e armonico sviluppo della personalità.

Al riguardo occorre fare alcune considerazioni. Il delitto di cui all’art. 600 octies c.p. è stato introdotto dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, al fine di sostituire la precedente fattispecie, contestualmente abrogata, concernente la corrispondente ipotesi, meramente contravvenzionale, di cui all’art. 671 c.p., che sanzionava l’impiego di minori nell’accattonaggio con una pena assai meno elevata, e cioè con l’arresto da tre mesi ad un anno.

Per effetto dell’attuale incriminazione, invece, viene punito con la reclusione fino a tre anni, salvo che il fatto costituisca un più grave reato, chiunque si avvalga per mendicare di una persona minore infraquattordicenne o comunque non imputabile, o permetta che tale persona, sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare.

In tal caso si è in presenza di un reato “culturalmente orientato”, in quanto esso sanziona una condotta considerata del tutto usuale nell’ambito delle comunità Rom.

Trattasi comunque  di un’incriminazione che di fatto risulta largamente disapplicata, in quanto, proprio a causa dell’abitualità di detta condotta, non viene generalmente avvertito dalla maggioranza della collettività il suo disvalore dal punto di vista penalistico; non è infrequente assistere a scene in cui appartenenti alle Forze dell’Ordine, pur a contatto visivo con mendicanti Rom accompagnati da minorenni, non intervengono in alcun modo, forse anche perché consapevoli delle difficoltà che comporterebbe  l’attività di identificazione personale dei responsabili e di successivo accertamento processuale.

La ratio dell’incriminazione è quella di impedire l’impiego dei minori in un’attività che li sottrae ad ogni  possibilità di istruzione e di educazione.

Si dovrebbe pertanto agire su un piano nuovo ed ulteriore, incidendo sulla responsabilità genitoriale. Attualmente, alla luce del combinato disposto degli artt. 287 e  288 c.p.p., l’instaurazione di un  procedimento per il reato di cui all’art. 600 octies c.p. non comporta la sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale. Infatti l’art. 287 c.p.p. prevede l’applicabilità delle misure interdittive (tra cui rientra la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale) per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni, mentre ai sensi dell’art. 600 octies  l’impiego di minori nell’accattonaggio può essere punito con una pena massima di tre anni. D’altro canto l’art. 288 c.p.p., che estende la possibilità di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale anche in relazione ai delitti contro la libertà sessuale e ai delitti previsti dagli artt. 530 e 571 c.p., commessi in danno di prossimi congiunti, non estende detta possibilità ad altre ipotesi.

Si tratta dunque di modificare l’art. 288 c.p.p., estendendo anche  al reato di cui all’art. 600 octies c.p. la possibilità di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.

Si dovrebbe poi prevedere, con apposita norma, che la successiva condanna per il reato di cui all’art. 600 octies c.p. comporti automaticamente la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale, ai sensi dell’art. 330 c.p.    

3. Blocco stradale

Accade con una certa frequenza che gruppi di manifestanti paralizzino il traffico bloccando la circolazione, con gravi riverberi anche dal punto di vista economico, a seguito di iniziative di protesta non autorizzate.

Il problema non può certo dirsi risolto per effetto delle modifiche apportate dal decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, al d.lg. 22 gennaio 1948, n. 66.

Originariamente l’art. 1 del predetto d.lg. n. 66 del 1948, come indicava la sua rubrica (Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate e la libera navigazione)  non si occupava della libera circolazione sulle strade ordinarie. Essa sanzionava (e tuttora sanziona) con una pena assai elevata, e cioè quella della reclusione da uno a sei anni,  chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, avesse deposto o abbandonato congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ferrata o, al fine di ostacolare la libera navigazione, avesse deposto o abbandonato congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una zona portuale o nelle acque di fiumi, canali o laghi, o comunque le avesse ostruite od ingombrate.

In virtù del decreto legge 4 maggio 2018, n. 113,  l’art. 1 è stato modificato, essendo stata prevista anche la condotta volta ad impedire od ostacolare la libera circolazione sulle strade ordinarie.

E’ stato poi introdotto l’art. 1-bis, in virtù del quale «Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la sanzione amministrativa da euro 1.000 e euro 4.000. La medesima sanzione si applica ai promotori e agli organizzatori».

Anche se scopo di dette modifiche era quello di configurare in tal modo un deterrente rispetto alle manifestazioni di blocco del traffico, questo risultato non è stato raggiunto a causa della cattiva qualità tecnica di detto elaborato normativo.

Essa sanziona, peraltro con una pena irrisoria, un’ipotesi tutto sommato assai residuale, quale quella, prevista dall’art. 1 bis, consistente nel comportamento del soggetto che isolatamente impedisce la libera circolazione su una strada ordinaria, ostruendo detta strada con il proprio corpo. Non viene espressamente presa in considerazione invece dall’art. 1  la manifestazione non autorizzata volta a comportare un blocco del traffico e soprattutto vengono equiparate  condotte assai disomogenee fra loro e di ben differente disvalore.

Attualmente infatti viene punito con la stessa pena sia chi al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione deponga o abbandoni congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria sia chi si limiti ad ostruire o ingombrare una strada ordinaria.   

Invece trattasi di situazioni e contesti non equiparabili. Il soggetto che ponga un congegno o un qualsivoglia oggetto su una strada (o su un binario ferroviario) può in tal modo provocare incidenti anche mortali, e del tutto corretta appare al riguardo la previsione di una sanzione da uno a sei anni.

Si sarebbe invece dovuta delineare una pena decisamente inferiore, quale ad esempio quella da sei mesi a due anni, con riferimento alla specifica ipotesi della manifestazione non autorizzata a seguito della quale venga ostruita una strada ordinaria.

Andrebbe dunque eliminato il comma 1 bis, che rischia solo di creare confusione, e l’art. 1 andrebbe così riscritto:

«1. Chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o ferrata, è punito con la reclusione da uno a sei anni. La stessa pena si applica nei confronti di chi, al fine di ostacolare la libera navigazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una zona portuale o nelle acque di fiumi, canali o laghi.

2. Il partecipante ad una manifestazione non autorizzata che con la sua condotta ostruisca, ingombri o comunque impedisca la libera circolazione su una strada ordinaria o ferrata, o la libera navigazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da euro 1.000 ad euro 4.000. La pena è aumentata per i promotori e gli organizzatori ed è raddoppiata se il fatto è commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose».

4. Occupazione abusiva di edifici

Il tema dell’occupazione abusiva preoccupa, giustamente, larga parte dell’opinione pubblica. Peraltro, mentre i mass media tendono a concentrare l’attenzione sull’occupazione abusiva di grandi immobili da parte di gruppi anarchici o appartenenti a “comunità” di vario tipo, il timore del cittadino comune è principalmente catalizzato sul rischio che, ad esempio, la sua casa di vacanze, lasciata incustodita nel periodo invernale, venga occupata o che, avendo stipulato un regolare contratto di locazione, dopo magari un breve lasso di tempo il conduttore interrompa il pagamento e continui peraltro a rimanere per mesi, se non per anni, nel suo immobile, rispetto al quale, oltretutto, egli è tenuto a pagare le imposte gravanti sull’immobile.

Questa problematica ha costituito  oggetto della recente proposta di legge n. AC935 datata 1° marzo 2023, d’iniziativa dei deputati Foti, Rotelli, Mattia, Benvenuti Gostoli, Milani, Iaia, Lampis, Fabrizio Rossi, Rachele Silvestri, avente ad oggetto “Modifica dell’articolo 634 del codice penale e altre disposizioni in materia di occupazione abusiva di immobili”, assegnata alla II Commissione Giustizia in sede Referente il 27 marzo 2023.

Peraltro detta proposta di legge si occupa del problema solo con riferimento ad alcune  tipologie. Essa infatti non incide sull’art. 633 c.p. (Invasione di terreni o edifici), e coinvolge unicamente l’art. 634 c.p. (Turbativa violenta del possesso di cose immobili).

In base all’attuale disposto dell’art. 634 c.p. «Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, turba, con violenza alla persona o con minaccia, l’altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309.

Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone.

Si procede tuttavia d’ufficio se la persona offesa è incapace, per età o infermità».

I promotori della proposta di legge intendono innalzare i tetti edittali di questa fattispecie criminosa, anche per impedire la possibilità di concessione  della sospensione condizionale della pena.

Pur dandosi atto dell’opportunità delle modifiche così proposte, deve evidenziarsi che esse finirebbero per non risolvere i casi statisticamente più frequenti, nei quali non ci troviamo in presenza di soggetti che, con violenza o minaccia, si introducono in un edificio, o nell’occupazione di un edificio da parte di più di dieci persone, ma, molto più semplicemente, si assiste all’occupazione di una casa rimasta vuota dopo le vacanze o al mancato rilascio dell’immobile da parte del conduttore al termine del contratto di locazione.

La “risposta” fornita dall’ordinamento a questi comportamenti risulta molto spesso insoddisfacente, a causa della sua scarsa “tempestività”.

Dal punto di vista civilistico, il proprietario dell’immobile può avvalersi dell’azione petitoria di cui all’art. 948 c.c., consistente nell’azione di rivendicazione, con cui il proprietario rivendica il proprio bene da chiunque lo possieda o lo detenga; egli inoltre può ricorrere al giudice ai sensi dell’art. 1168 c.c., per ottenere in via di urgenza la reintegrazione nel possesso.

Il problema è dato dal fatto che, una volta ottenuto dall’autorità giudiziaria un provvedimento favorevole, a detto provvedimento spesso viene data una tardiva esecuzione concreta.

Il Governo, durante la XVII legislatura, aveva cercato di intervenire al riguardo, in virtù del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, conv., con modif., nella l. 18 aprile 2017, n. 48, volto a delineare le ipotesi in cui, sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, può essere utilizzata la forza pubblica per procedere allo sgombero ed alla liberazione degli immobili in esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Sono state delineate al riguardo una serie di priorità ed è stato previsto che la forza pubblica debba tener conto di una gamma di diversi fattori; conseguentemente, accade non di rado che l’esigenza di un immediato reintegro del diritto di proprietà venga giudicato subvalente rispetto ad altri considerazioni, quali ad esempio quelle connesse ai bisogni degli occupanti abusivi, laddove essi versino in condizioni di vulnerabilità.

Per quanto concerne l’aspetto penale, la disposizione che rappresenta il naturale punto di riferimento al riguardo, e cioè l’art. 633 c.p., appare del tutto inadatta a tutelare i diritti e le aspettative della persona offesa.

E’ stato osservato che essa non rappresenta un adeguato deterrente, in quanto, laddove la pena sia inferiore ai due anni, il condannato può comunque fruire della sospensione condizionale della pena. Inoltre,  in caso di flagranza il tetto edittale previsto non consente l’arresto né l’adozione di misure cautelari, fatte salve le ipotesi aggravate  ( peraltro di ridottissima incidenza statistica) che si verificano «se il fatto è commesso da più di cinque persone o se il fatto è commesso da persona palesemente armata».

Dunque, così riassunto l’attuale stato della normativa, occorre sottolineare come il proprietario dell’immobile abusivamente occupato, pur dopo aver presentato denuncia/querela, deve spesso attendere tempi lunghissimi per poter rientrare in possesso del proprio bene.

Al riguardo, potrebbe essere ipotizzata una soluzione molto agevole e lineare. Sarebbe infatti sufficiente, sotto questo aspetto, innalzare il massimo edittale, punendo la condotta di cui all’art. 633 c.p. non più, come oggi avviene, con la sanzione della reclusione da uno a tre anni, bensì con quella della reclusione da uno a quattro anni. 

In tal modo, ai sensi dell’art. 381 c.p.p., potrebbe essere disposto l’arresto in flagranza, e conseguentemente il proprietario vedrebbe realizzato il proprio diritto a rientrare in possesso del bene.

5. Vilipendio

Le varie norme in tema di vilipendio, contenute nel codice penale, hanno conosciuto, ad opera della l. n. 85 del 2006, una radicale contrazione delle pene previste, che ha finito col rendere le relative previsioni del tutto prive di  efficacia deterrente.

Emblematico appare al riguardo l’esempio dell’art. 292 c.p. (Vilipendio alla bandiera o ad altro emblema dello Stato).

Detta norma  ha subito, per effetto delle modifiche operate dall’art. 5, legge 24 febbraio 2006, n. 85, un drastico ridimensionamento dal punto di vista degli effetti sanzionatori; attualmente infatti alla condotta di vilipendio risulta ricollegata una semplice pena pecuniaria, consistente nella multa da euro 1.000 a euro 5.000, aumentata da euro 5.000 a euro 10.000 qualora detto fatto sia commesso in occasione di una pubblica ricorrenza o di una celebrazione ufficiale. Analogamente, gli artt. 290 c.p. (Vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze Armate) e 291 c.p. (Vilipendio alla Nazione italiana), per effetto della modifica operata dall’art. 11, legge n. 85 del 2006, prevedono come conseguenza della condotta illecita la sola pena pecuniaria, consistente, in entrambi i casi, nella multa da euro 1.000 ad euro 5.000.

E’ significativo notare come in origine dette norme, che risultano ascrivibili a «chiunque», risultassero sostanzialmente assimilabili, anche per quanto concerne le pene previste, alle corrispondenti condotte di vilipendio ascrivibili ai militari,  contenute nel codice penale militare di pace, che sono invece rimaste immutate.

Possiamo così rilevare che in base all’art. 81 c.p.m.p. (Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze Armate dello Stato) «Il militare, che pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la reclusione militare da due a sette anni. La stessa pena si applica al militare che pubblicamente vilipende le Forze Armate dello Stato o una parte di esse, o quelle della liberazione».

Il successivo art. 82 c.p.m.p. (Vilipendio alla Nazione italiana) incrimina «il militare, che pubblicamente vilipende la Nazione italiana», prevedendo al riguardo come sanzione la reclusione militare da due a cinque anni, e disponendo che qualora il fatto sia commesso in territorio estero debba applicarsi la reclusione militare da due a sette anni.

Infine l’art. 83 c.p.m.p. (Vilipendio alla bandiera nazionale o ad altro emblema dello Stato) punisce con la reclusione militare da tre a sette anni «il militare, che vilipende la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato», nonché il militare che «vilipende i colori nazionali raffigurati su cosa diversa da una bandiera», fissando peraltro la più grave pena della reclusione militare da tre a dodici anni qualora il fatto sia commesso in territorio estero.

La dottrina osservare giustamente che, al di là di ogni valutazione sulla congruità dell’attuale pena prevista dal codice penale per il vilipendio della bandiera nazionale, il divario sanzionatorio fra la fattispecie comune e quella militare è ora accentuato in termini che appare difficile considerare ragionevoli.

Si dovrebbe pertanto cercare di ripristinare, almeno parzialmente, l’originaria corrispondenza, reintroducendo la sanzione della reclusione nei confronti dei reati di vilipendio contenuti nel codice penale, in relazione a condotte che turbano l’opinione pubblica ed appaiono del tutto antitetiche rispetto ai valori di Patria, di unità nazionale, di rispetto delle istituzioni.

Pierpaolo Rivello
già procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione

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