Alle radici della corruzione

Premessa. – Nell’antica Roma, per la fase arcaica della ‘nazione latina’ e quella repubblicana precedente il culmine dell’imperialismo romano, un argine alla corruzione non fu la repressione, bensì un controllo sociale diffuso del potere, con un rifiuto generalizzato inflitto ai corrotti, che li escludeva definitivamente dall’esercizio del potere stesso. In seguito all’affermarsi delle mire espansionistiche romane transmediterranee non fu più così: la prevenzione e il contrasto alla corruzione vennero ricompresi tra i temi di lotta politica. 

Si fece ricorso nell’esperienza giuridica romana a rimedi e mezzi di contrasto avverso tipologie corruttive, in primo luogo con la finalità dell’affermazione di valori e principi di integrità politica ed amministrativa dei ceti dirigenti. Episodi e vicende in materia sono rintracciabili nelle fonti antiche, ma si ravvisa soprattutto una precisa scelta di politica del diritto: la costituzione romana di per sé, per la sua stessa struttura, avrebbe dovuto essere in grado di impedire degenerazioni dai buoni costumi degli antichi padri di famiglia. La tutela della repubblica venne poi rafforzata, in risposta a più turbolente fenomenologie di deviazioni dai valori fondanti del passato, con misure legislative di repressione criminale, in maniera sintomatica intensificatesi nel corso dell’epoca repubblicana.

Il frazionamento dei poteri e la limitazione della durata dell’affidamento di essi nel tempo alla medesima persona rappresentarono, difatti, nella costituzione romana, l’antidoto al tipo di governo assoluto che era stato incarnato dai re, soprattutto da quelli della monarchia etrusca.

Si trattava di una costituzione mista – in equilibrio tra assemblee popolari, senato e magistrature – che suscitava notoriamente l’ammirazione di chi l’osservasse da altre realtà mediterranee, come nel caso celebre di Polibio. Così si resse una comunità composta di cittadini liberi, che erano al contempo soldati, elettori e proprietari-coltivatori delle loro terre, sottoposti all’imperium quale potere sovrano di comando esercitato dai magistrati supremi annuali eletti dalla cittadinanza. Ecco il punto chiave implicito dell’esperienza costituzionale romana, in grado di prevenire fenomeni di corruzione grazie, in primo luogo, ad un funzionale governo misto e ad una vera separazione dei poteri.

Definizione della corruzione antica. – La concettualizzazione stessa della corruzione ancora mancava in generale nell’epoca repubblicana e si articolò dopo in varie categorie, pur senza mai far configurare un reato specifico definito. Peraltro nelle fonti si riscontra avesse un posto a sé la corruzione politica, che soltanto in casi di rilevanza sul piano del diritto penale emergeva in via autonoma da una configurazione concernente i costumi (mores) e sottoposta al solo controllo sociale. 

Si possono individuare in linea estremamente di massima quattro fattispecie criminali: la corruzione elettorale (ambitus, connesso con il crimen sodaliciorum, dalla denominazione di sodalicia attribuita a consorterie o conventicole, costituite al fine di manovrare e canalizzare voti alle elezioni); il peculato, ossia l’appropriarsi di beni o denaro pubblico (peculatus da pecus, pecora, da cui derivò anche pecunia); l’estorsione, o concussione, a danno di provinciali (repetundae); infine, ma era in realtà la previsione più antica di tutte, la corruzione giudiziale, sanzionata con la pena capitale addirittura sin dalle XII tavole del 451-450 a.C. (tab. 9.3). Fattispecie che viene tramandata da una pagina delle Notti Attiche di Aulo Gellio (20.1.7-8), che riporta un dialogo tra un giurista, Sesto Cecilio, ed un filosofo accademico, Favorino, nel II sec. d.C. Lo squarcio illuminante è il seguente: «e dove sono poi in queste leggi le norme che si possano tacciare di crudeltà? A meno che tu ritenga crudele la legge che punisce con la morte chi, ufficialmente designato giudice o arbitro, è riconosciuto colpevole d’avere incassato denaro per lo svolgimento della causa … 8. Tu conosci a fondo la filosofia: dimmi, dunque, per favore, se non ritieni meritevole della pena capitale la slealtà del giudice che, contravvenendo a ogni diritto divino e umano, tradisce per denaro il suo giuramento …» (trad. Giorgio Bernardi-Perini).

In tutte queste figure di reato s’annidava la corruzione, perché essa veniva individuata come distorsione del buon andamento della comunità civile. Sussisteva, quindi, un minimo comun denominatore circa i requisiti essenziali. Se nell’antica Roma, infatti, non si riscontra la presenza di un unico termine, ciò non significa che però, sotto l’aspetto giuridico, non si individuasse comunque tale fenomeno e lo si prevenisse, contrastasse e punisse nelle sue svariate manifestazioni. Almeno un triplice aspetto comune, in verità, pare esserci. I comportamenti devono, in primo luogo, costituire violazioni di doveri d’ufficio; inoltre, dalla condotta tenuta s’è ricavato un beneficio privato a scapito di una diminuzione fraudolenta del patrimonio pubblico; infine, le azioni commesse sono vietate per legge. 

La corruzione in età repubblicana.Appare rilevante che il primo reato riconducibile al significato forgiatosi nell’esperienza giuridica romana mediorepubblicana, per indicare la corruzione, sia connaturato all’ambizione elettorale: ambitus esprime, difatti, l’attività di chi in periodo di votazioni compia pratiche illecite per procurarsi consensi, andandosene a tal scopo in giro (ambire). Fu il fenomeno corruttivo che probabilmente più incise sulla degenerazione delle istituzioni politiche romane e raggiunse l’acme nel I secolo a.C. Dal punto di vista etimologico, «ambire» significa proprio andare da una parte e dall’altra (per sollecitare voti). Ne deriva pure il termine «ambizione». La prima legge anticorruzione si riferirebbe appunto a tale reato e risalirebbe al 358 a.C.: la lex Poetelia de ambitu. 

Emblematica poi appare la vicenda della guerra a Giugurta (che copre l’arco di tempo dal 112 al 105 a.C.), al quale viene attribuita da Sallustio la famosa frase che scolpisce la venalità di una capitale destinata oramai a disfarsi perché in balia del miglior offerente, ma soprattutto perché all’interno della comunità s’era spezzata la concordia necessaria per combattere la corruzione. Si rilegga Sallustio, La guerra giugurtina 35.10: «O città venale, e presto destinata a perire, se troverà un compratore» (Urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit! Trad. di Giuseppe Lipparini). Considerazione questa moraleggiante tipicamente repubblicana; eppure in seguito Tacito ancor più efficacemente consegnerà ai posteri nei suoi Annali (3.27.3) la lapidaria e celeberrima considerazione, dal tono disperato, che quanto più corrotta era la repubblica tanto più numerose fossero le leggi (et corruptissima re publica plurimae leges).

Fino al 18 a.C. che vide l’emanazione di una legge augustea in argomento (lex Iulia de ambitu), si susseguirono molti altri provvedimenti legislativi tesi a stroncare illeciti e brogli di carattere elettorale, a testimoniare la persistenza del fenomeno, scemato d’intensità soltanto allorquando, sotto l’imperatore Tiberio, l’elezione dei magistrati venne trasferita dai comizi al senato, di conseguenza influenzata sempre più dal principe. Neppure misure a tutela della segretezza dell’espressione del voto (le cosiddette leges tabellariae), evidentemente, avevano   debellato prassi corruttive in materia.

L’impressione che si ricava è tuttavia di un’autodifesa da parte dei ceti dirigenti, i quali intendano frenare soprattutto promesse e dazioni di denaro per comprare voti o lo scambio di essi. Insomma, a tutela di sé stessi, come nel caso dell’altro reato tipico dell’aristocrazia senatoria romana: l’estorsione ai danni dei provinciali (il crimen repetundarum), oggetto al pari di ricorrenti interventi legislativi, con sintomatici mutevoli pene e altalenanti criteri di composizione delle giurie. Si pensi, tanto per fare un esempio, in ordine alle concessioni individuali o collettive della cittadinanza, che costituivano uno dei fattori più importanti della politica romana nei confronti delle popolazioni soggette, la lex Acilia repetundarum del 123/122 a.C. concesse la cittadinanza romana al peregrino che avesse accusato di concussione, radicando la relativa quaestio de repetundis, un magistrato romano ottenendone la condanna. 

Epilogo. – Si può infine evincere dalle fonti relative al principato che, almeno per buona parte di esso, provenga un’attestazione molto bassa di fenomeni di peculato o di estorsione, sia a livello di governo centrale, sia di quello locale. Probabilmente siamo in presenza della punta di un ‘iceberg’ di trasmissione di notizie, che peraltro riguardano soltanto poche zone e province. Forse si metteva di più tutto a tacere, ma non sempre. 

Nel basso impero, la corruzione aumentò poi a dismisura; ai pubblici funzionari, che si macchiassero di essa oppure di inerzia o abusi nell’amministrazione civile, venne comminata pure l’infamia come strumento efficace di contrasto. A partire dall’avanzato IV secolo i costumi, anche quelli legati al malaffare, propri della vita politica si insinuarono a lungo andare nelle vicende della Chiesa cattolica romana. A riprova che il consolidarsi di strutture di potere, in sostanza divenuti regimi assoluti, non più controllabili democraticamente, abituati all’ubbidienza e non più alla critica, comportasse tra gli scotti da pagare proprio la corruzione. 

Ma dalle istituzioni pubbliche romane si era potuto ottenere giustizia, scoprendo le responsabilità risalenti ad esse sul piano corruttivo. Altro problema storiografico sarebbe il ricercare se un pericolo (più grave, non a caso) sia stata la disaffezione verso la politica di strati sempre maggiori della comunità romana, che lasciasse spazi all’accettazione di sistemi reali di potere, nei quali corrotti e corruttori in sintonia prelevavano, per fini privati, risorse destinate idealmente ad essere della res publica

Felice Mercogliano – Università di Camerino

Postilla bibliografica. – Su Roma arcaica all’interno della ‘nazione latina’, da ultimo, si sofferma Lorenzo Gagliardi, La nazione latina al tempo della Roma dei re, in Cittadinanza e nazione nella storia europea, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, p. 21 ss.

In argomento di storia della cittadinanza romana e la svolta restrittiva acuitasi dal III secolo a.C., cfr. Giuseppe Valditara, Civis Romanus sum, Torino, Giappichelli, 2018, 1 ss., con letteratura, a cui ora adde Antonello Calore, Cittadinanza” tra storia e comparazione, in Massimo Brutti, Alessandro Somma (eds.), Diritto: storia e comparazione. Nuovi propositi per un binomio antico, Frankfurt am Main, Max Planck Institute for European Legal History Open Access Publication, 2018, p. 81 ss., propenso a intravederne gradazioni, e Antonio Palma, Civitas Romana, civitas mundi. Saggio sulla cittadinanza romana, Torino, Giappichelli, 2020.

Sulla struttura mista della costituzione romana, nonché il pensiero greco e romano circa la concezione, la forma e i poteri in uno Stato misto in armonico equilibrio, si v., tra i tanti, Maria Miceli, Governo misto’, «quartum genus rei publicae» e separazione dei poteri, in Luigi Labruna (diretto da), Tradizione romanistica e Costituzione, a cura di Maria Pia Baccari e Cosimo Cascione, I.1, «Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana», Napoli, Esi, 2006, 659 ss.

Per analisi più ampie in tema di corruzione, fonti e bibliografia, mi permetto di rinviare ad un mio contributo pubblicato di recente, Le radici romane delle misure di contrasto e prevenzione dei fenomeni corruttivi, in Anticorruzione, trasparenza e ricostruzione. Camerino 21 maggio 2019, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, 35 ss. (destinato in versione ampliata e riveduta alle onoranze per i 90 anni di Francesco Paolo Casavola), e a un altro mio articolo, Poteri assoluti e corruzione. Un binomio avversato dalle istituzioni romane, in corso di stampa nella rivista Diritto penale XXI secolo. Altro mio articolo di riferimento ulteriore è Costituzione e cittadinanza. Fondamenta antiche, fragilità moderne, in Le nuove frontiere della scuola, 16/50, 2019, 142 ss. (testo con note di un intervento che ho tenuto al Convegno Aidu su «70 anni di Costituzione. Una Carta da vivere», svoltosi a Roma nel febbraio 2019 presso la Camera dei Deputati al Palazzo Montecitorio nella Sala della Regina).

Sulla punizione con la pena capitale del giudice corrotto disposta dalle XII Tavole, da ultimo, si v. M. Miglietta, Le norme di diritto criminale, in XII Tabulae. Testo e commento, II, a cura di M.F. Cursi, Napoli, Esi, 2018, 503 ss. Si perseguiva, insomma, lo iudex o arbiter che prendesse denaro per la cosa da giudicare (Gell. 20.1.7-8: Dure autem scriptum esse in istis legibus quid existimari potest? nisi duram esse legem putas, quae iudicem arbitrumve iure datum, qui ob rem dicendam pecuniam accepisse convictus est, capite poenitur … 8. Dic enim, quaeso, dic, vir sapientiae studiosissime, an aut iudicis illius perfidiam contra omnia iura divina atque humana iusiurandum suum pecunia vendentis … non dignam esse capitis poenae existumes?). 

ABSTRACT

Hanno la loro genesi nell’esperienza costituzionale romana limiti e regole anti corruzione e verso chi eserciti il governo, insieme con diritti e doveri dei cittadini. Lo dimostrano alcuni esempi del frazionamento dei poteri supremi e della delimitazione temporale di essi, del divieto di cumulo ed iterazione delle cariche magistratuali e intervalli tra esse. Fragilità istituzionali erano comunque sussistenti e si verifica che il fenomeno della corruzione percorse la res publica, soprattutto in connessione con lo svolgimento delle elezioni dei magistrati nella fase repubblicana, durante la quale sono attestate leggi ricorrenti. Le fonti sulla corruzione si diradano solo a partire dal principato, in maniera significativa, per impennarsi dal basso impero.

 

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