Il punto sulla Giustizia

Recenti vicende, che hanno toccato profondamente gli ambienti giudiziari, sono state un autentico terremoto nei palazzi della Giustizia ed è perfettamente comprensibile, tanto la sorpresa quanto la giusta indignazione dei cittadini, abituati ad una visione netta e rispettabile della «funzione».

Occorre ricordare, intanto, come è nata la «vicenda» e specialmente fare riferimento alla lunga «autodifesa» del protagonista, un magistrato di altissimo livello, membro togato del CSM, già presidente della Associazione Nazionale Magistrati. Coinvolto in una nota trasmissione televisiva, è intervenuto con una lunga e articolata dichiarazione, variamente commentata ed interpretata, essendo ormai di pubblico dominio. Essa sarà stata giudicata una sincera ammissione dei «fatti», se non proprio delle responsabilità, ed una sorta di autodifesa, appena accennata, e presa di distanza dal «sistema correntizio» e da quanto ad esso si accompagna. Come dire: «mi ci sono trovato e ci ho navigato anch’io». Tale, infatti, probabilmente, voleva apparire.

Viceversa, potrebbe essere interpretata come una sorta di arrogante, ben celata, provocazione. Se non propriamente una sfida. Come dire: «ebbene sì, ma tanto me la caverò con poco». Certamente, con il «pacchetto» di … informazioni che possiede (anche e soprattutto lui) avrebbe di che giocarsi le migliori carte.

Probabilmente, ci si attende una punizione esemplare: ma non sarà così, non solo per queste ragioni ma, anche e soprattutto, perché si cercherà di «minimizzare» (alcuni «capi» sono stati già esclusi ed archiviati) nel nobile intento di non fare sfigurare più di tanto Donna Magistratura. Protetta com’è dalle due ancelle Autonomia e Indipendenza, destinate a scudo verso qualsiasi tentativo di «mano morta». Danneggiata rimane soltanto la gran parte dei magistrati onesti e liberi, quelli che, venivano sempre «dopo». O mai. Il tempo (tanto, probabilmente) dirà se questa lettura è corretta o meno.

Conviene, in ogni caso, fare il punto giuridico della situazione, premesso, ovviamente, che esso si basa su notizie di fatti che dovranno essere confermati nella sede opportuna, ossia in quella giudiziaria. Essi vengono dati per scontati per facilità di esposizione, e come tali vanno intesi. Partendo da una, pur superficiale, ricostruzione dei «fatti», nella lunga e «movimentata» presenza del protagonista ai vertici della Associazione Nazionale Magistrati e, contemporaneamente e con evidente connessione, di membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura, si può riconoscere che i «compiti funzionali specifici» affidati consistevano nel partecipare a tutte le deliberazioni associative ma specialmente consiliari, aventi ad oggetto la carriera dei magistrati italiani e la tutela della regolarità dell’operato di questi. Come dire gli aspetti organizzativi (avanzamenti, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e quant’altro) oltre alla specifica funzione disciplinare, la cui estrema delicatezza è evidente.

Tuttavia, e lo è stato ampiamente riconosciuto anche se in una sede «impropria» quale le trasmissioni televisive, l’esercizio di tali funzioni sarebbe stato consapevolmente distorto, anche su sollecitazione di alcuni colleghi o di iniziative concordate, in altri casi. La «giustificazione» è stata sostanzialmente basata sulla «preesistenza del sistema correntizio e favoritizio» nel quale il magistrato si sarebbe trovato immerso. Forse intenderebbe far pensare ad un «suo malgrado» che urta, tuttavia, con una innegabile, più che trentennale realtà, ossia che questa «situazione» non solo era nota a tutti i magistrati, non solo se ne parlava apertamente nei corridoi e nelle «stanze», ma era proprio l’obbiettivo della rincorsa di alcuni agli ambiti posti di potere, perché di questo si trattava. Anche Egli era stato eletto in questo modo.

La ricostruzione delle vicende sposta anche l’attenzione su quanti, responsabilmente e coscientemente, si sarebbero serviti del «sistema» per vantaggi di carriera, per ambiti trasferimenti, per promozioni e quant’altro, fino alla ricerca della impunità in sede disciplinare. Quel che rende il «sistema» estremamente deprecabile è proprio la «parzialità» delle decisioni e dei provvedimenti, nel senso evidente che, di solito, a personaggio «favorito» generalmente corrisponde uno «sfavorito», magari oggettivamente più meritevole. E questo è gravissimo, proprio nel settore giustizia.

Tale ricostruzione, con le opportune cautele ed attraverso i pochi dati disponibili (e sempre che siano confermati nelle sedi opportune) richiama, teoricamente, l’art. 319 del Codice Penale, e persino l’art. 319 ter C.P. Non v’è dubbio, infatti, che le «alterazioni funzionali» (si fa per dire) volute e consapevoli del «sistema» tendessero a produrre, se non denaro (sarebbe stata esclusa questa ipotesi nel caso di specie) quanto meno «altra utilità», non meno sufficiente per la sussistenza della «corruzione per atto contrario». E che tali fossero gli «atti» non richiede la minima spiegazione.

Merita qualche osservazione il concetto di «altra utilità», da sempre interpretato con varie impostazioni dalla giurisprudenza, anche e soprattutto di legittimità. La «complessità fattuale» della vicenda di che trattasi, richiede un esame di tale concetto, ove si pensi che, per anni, fu ampiamente (e con conclusioni diverse) discusso il caso dei «favori di una donna» quale possibile «utilità» idonea a distorcere l’operato del pubblico ufficiale. Si ricordi la nota sentenza 1894/65 della terza Sezione della Corte di Cassazione che escludeva (in contrario avviso) la qualificazione ai favori concessi gratuitamente «da una donna non adusa a concedersi per denaro». Il dibattito, molto articolato, fino alle Sezioni Unite, è ben noto, ma evidenzia la opportunità di qualche accenno.

Va detto, infatti, che le «prestazioni» attribuite al magistrato sarebbero state, sotto questi profili, molto «variegate», quanto meno (anche biglietti per lo stadio), in «cambio» di «opportuni aggiustamenti» nel settore in cui lo stesso operava in posizione di quasi incontrollato potere. È evidente che l’«eventuale» coincidenza del risultato conseguito «pattiziamente» con quello … che sarebbe stato ugualmente, non esclude affatto la sussistenza del delitto di che trattasi.

Ma anche escludendo tale ipotesi, si dovrebbe ragionare sul meno grave reato di cui all’art. 323 del Codice Penale. Oggetto della tutela penale specifica sono l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione; pertanto il giudice si muove alla ricerca di distorsioni nell’esercizio concreto della funzione – l’abuso appunto – utilizzando come parametro la propria interpretazione della funzione stessa, nonché delle regole e dei principi che presiedono al suo svolgimento (Tonoletti).

Ma non si può trascurare l’aspetto ben più grave, ossia la «sistematicità», peraltro «notoria» e molto estesa nel tempo. Tale aspetto comporta necessariamente la «consapevole partecipazione di altri soggetti», quanto meno a causa della «indispensabilità» per il funzionamento della macchina. L’individuazione di essi ed il loro coinvolgimento necessario, non consentono di immaginare (come da più parti si pensa) il protagonista quale agnello sacrificale e pietra tombale di uno scandalo di indubbia gravità. Tutti i coinvolti, viceversa, devono essere individuati e giudicati.

Ma vi sono altri aspetti che meritano attenzione. Queste considerazioni, inevitabilmente, spostano l’attenzione sui soggetti che avrebbero fatto parte del «sistema» in quanto elementi necessari per il funzionamento.

Questo aspetto parte dal dato essenziale e innegabile secondo cui il magistrato in questione non avrebbe potuto svolgere la sua (supposta) azione delittuosa senza la compartecipazione indispensabile e cosciente di concorrenti, in numero e «posizione» adeguati al funzionamento. Ancora una volta va ribadito essere del tutto ingiusto, ma soprattutto scorretto penalmente, fare del protagonista «il responsabile», all’evidente scopo di concludere la vicenda, anche e specialmente nei confronti del popolo italiano.

Il «sistema correntizio» ha avuto la sua parte parimenti determinante, ma viene dato quasi unanimemente per scontato e quasi legittimo, trascurando che ad esso risultano collegati elementi «politici», in violazione del principio secondo cui «la Politica esige una scelta di campo, la Giustizia esclude ogni scelta di campo». La stessa ammissione dei fatti, sia pure in sede non processuale, lascia ampio spazio per ogni illazione.

Ma, di conseguenza, il discorso e la analisi devono spostarsi sulla qualificazione giuridica «complessiva» della vicenda, con particolare riferimento al delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416 del codice penale, non trascurando, se del caso, le ulteriori modifiche. In buona sostanza, sia pure a livello di ipotesi, ci si deve chiedere come fosse possibile ottenere decisioni «gradite» senza avere la certezza di un numero sufficiente e «stabile» di adesioni, quindi non occasionali. Si pensi anche soltanto ai membri togati del CSM essi in numero di sedici. Come dire che occorreva poter contare su almeno sette altri componenti. E costoro, ci si deve chiedere, come venivano «sollecitati» ed a quali condizioni evidentemente accettavano. Un’indagine meticolosa sulle «pratiche» evase sarebbe, quindi, indispensabile per dare alla vicenda quella stessa importanza investigativa che certamente avrebbe avuto con soggetti diversi e in un ambiente … diverso. Ma questo difficilmente accadrà, perché è evidente il potere di veto «sostanziale»; in quanto tale peggiore di quello legale.

Una seria investigazione, specialmente laddove potrebbe prendere corpo la ipotesi «associativa», andrebbe effettuata sulle specifiche modalità della annosa «gestione». Potrà sembrare esagerata, e persino fantascientifica, una ipotesi richiamante l’art. 416 bis del Codice Penale. In una intervista televisiva, del 14 giungo scorso, nel medesimo programma, un altissimo magistrato vi ha fatto apertamente cenno, senza infingimenti.

Certamente, non può non apparire stravagante l’immagine di una congregazione «mafiosa» composta da magistrati e assimilati. Ma la insuperabile «parità di trattamento» dovrebbe imporre quanto meno la «verifica per escludere». Tale quale esigono la qualità delle persone e delle funzioni, per cui il richiamo alla moglie di Cesare appare persino scontato e superfluo. Quanto meno perché ciò non divenga, viceversa, uno scudo.

Gli altri magistrati, è stato affermato semplicisticamente, «subivano» in apparente silenzio e rassegnazione. Ma era veramente tale – e già sarebbe gravissimo – oppure si era instaurato un sottile, ma pesante, «clima di intimidazione». Anche su questo occorrerà indagare con minuzia e distacco, come si sarebbe fatto e si fa nei confronti di cittadini comuni, specialmente se … «qualificati» in termini non graditi al «sistema» e specialmente «politici» o «ideologici». Occorrerà verificare se, come sempre nei processi per reati «associativi», sia stato effettuato il «controllo mediante apparecchiature idonee» (il trojan) anche sui soggetti che si … interfacciavano col principale sospettato, per questo gravato dall’intercettatore occulto. Quanto meno per escludere.

Merita attenzione, a modesto parere di chi scrive, una «panoramica» che può essere tracciata su aspetti molto importanti, se non propriamente essenziali. I numerosi casi che si sono presentati, richiedono un accenno al rapporto fra la Politica (attiva) e l’esercizio della funzione giudiziaria.

Non v’è dubbio che al magistrato non possa essere precluso l’accesso alla Politica; per motivi di costituzionalità, si è sempre detto. Il che non vuol dire che esso non possa, anzi debba, essere severamente regolamentato posto che, si ripete, la «scelta di campo» è essenziale nella politica ma contrasta insuperabilmente con l’amministrazione della Giustizia. Generalmente, si tende a spostare il limite della cosiddetta «porta girevole», ostacolando e regolando il rientro in magistratura di chi l’abbia momentaneamente «accantonata» per dedicarsi alla Politica. I casi sono noti e non occorre più di tanto.

A parere di chi scrive, occorre soprattutto fare riferimento alla ben più importante fase iniziale, ossia l’entrata in politica del magistrato. Si è detto che il magistrato deve essere imparziale ma anche «apparire tale». Viceversa, la funzione politica non può che contrastare con la imparzialità. Viene da chiedersi allora su quale via di Damasco il magistrato novello politico, o aspirante tale, possa essere stato «fulminato» dal credo politico. Evidentemente, aveva già una sua ben precisa idea politica (o peggio «ideologia») che ad un certo punto si rende necessariamente manifesta. Tutto sta a vedere quanto e come sia riuscito a spogliarsi della tentazione politica rendendo Giustizia e, soprattutto, convincere i cittadini giudicati di essere stati trattati, ciononostante, in maniera imparziale. Specialmente in alcuni casi particolarmente «delicati» che non richiedono esempi concreti essendo facilmente rintracciabili nelle cronache. Una sorta di «quarantena» potrebbe rivelarsi strumento idoneo nel rispetto del diritto costituzionalmente garantito ma anche della indispensabile apparenza di imparzialità. Come dire che la «conversione» potrebbe essere maturata in due o tre anni dalla uscita dalla magistratura o, quanto meno, dal posizionamento «fuori ruolo», con quanto ne deriva. Del resto, la dedizione alla Politica, per il magistrato è un diritto ma non certamente un obbligo.

Ben diversa, a modesto parere, la questione del rientro in carriera che meglio sarebbe fosse impedito radicalmente, come l’opinione quasi unanime richiede. Si vuole soltanto far notare quanto questa ipotesi sia meno dannosa per l’immagine proprio perché il magistrato, ormai svelatosi «politicamente» e persino «ideologicamente», dovrebbe curare molto severamente la sua ripresa azione giudiziaria, per non dare adito a quel che sarebbe non soltanto un dubbio ma una pesantissima «certezza». Specialmente per i Cittadini sottoposti al suo giudizio. A non dire che, fin troppo spesso, potrebbe essere costretto ad «astenersi», sia pure entro ben precisi ma necessari limiti e casistiche.

Viene, dunque, solitamente addotto il fatto che «anche un magistrato può avere le sue idee politiche». Ci si deve, tuttavia, chiedere come possa correttamente esercitare la delicatissima funzione di rendere giustizia chi non sia assolutamente capace di liberarsi da ciò, al pari dei sentimenti di simpatia o antipatia, della «fede calcistica» e – per esagerare – della propensione per le belle donne, davanti ad una imputata che tale non è. Sono evidentemente argomenti faziosi e pretestuosi.

Il rapporto con la Politica, ma anche con la scalata ai vertici della Magistratura, portano inevitabilmente (e lo si constata quasi giornalmente) al deprecabile fenomeno del «protagonismo strumentale». Non è soltanto questione di comprensibilissimo «amor proprio». È che, notoriamente, «diventare famosi in magistratura porta a brillanti carriere e quasi certamente alla impunità». E questo è gravissimo, tanto più in quanto è notorio e comprovato da numerosissime eloquenti casistiche. La domanda, e soprattutto tale conclusione, porta ad altri aspetti non meno rilevanti. La via della Fama, specialmente in tempi di elevata mediaticità, comporta «buoni rapporti» con la Stampa, specialmente quella «gradita politicamente» che devono essere «curati» in una sorta di inevitabile scambio «do ut des» della notizia «ancora sepolta» contro un bell’articolo molto elogiativo. Ovvero un accurato silenzio, ove preferibile.

Ma questa possibilità, richiama, pressoché inevitabilmente, un altro «tema» assai delicato e complesso: le modalità e le regole per la assegnazione dei fascicoli (penali, soprattutto e per i Pubblici Ministeri, soprattutto), per evidenti motivi. Gestendo, come si suol dire, processetti di furtarelli, famosi non si diventa. Il «tema» è sempre stato di grandissimo interesse, in particolare per gli appassionati della «carriera»: nulla di male, salvo possibili deviazioni. E, sotto questo profilo, tornano in luce gli aspetti critici della delicata materia. Un atteggiamento particolarmente rispettoso per i Capi degli Uffici, non è stato mai inutile; certamente non dannoso.

Sui criteri di assegnazione dei fascicoli si è detto e scritto tanto; e torna in mente la famosa «circolare Maddalena» con la quale l’allora capo della Procura di Torino tentò di mettere «un po’ di ordine». La circolare si concentrava sul criterio del «maggiore allarme sociale», che si rivelò tanto elastico quanto l’assegnazione a lume di naso. Nella migliore delle ipotesi.

Ma questo problema, riguardava non soltanto la finalità «principale» ossia l’ordine di preferenza nella trattazione, ma anche, di riflesso, i criteri di assegnazione. In questo particolare aspetto rientra la creazione di particolari «gruppi» di magistrati (specialmente del Pubblico Ministero) cui veniva e viene assegnata una sorta di competenza per materia, quando non per … categoria di imputati. Oggi si chiamerebbero e si chiamano «pool», con quanto ne deriva. Anche l’appartenenza a qualcuno di questi «gruppi di eletti» (nulla da dire sulla professionalità, salvo ognuno) era un traguardo, come tale soggetto alle «regole» finora esposte, ma anche alle «finalità».

Stante la ben nota situazione, il carico enorme di «notizie di reato», si finì col constatare che, in realtà, di trattava di stabilire cosa fare prescrivere e cosa no. Ma anche a quale «notizia» fosse opportuno dare la precedenza; magari per finalità «pseudo giudiziarie». Per inciso, vale la pena di richiamare la ignominiosa e gravissima modifica dell’istituto della prescrizione penale, certamente non invisa alla categoria. Forse sarebbe bastato fare riferimento alla «pena edittale» per i reati in questione, concetto fatalmente non risolutivo, passibile di qualche … distorsione, ma almeno ferreo e oggettivo (art. 132 del CPP). La entità di essa dovrebbe indicare il livello del richiamato «allarme sociale». Anche questi aspetti hanno segnato l’esercizio della stessa Funzione Giurisdizionale, ancorché rimasti fra le mura dei Palazzi.

Altro aspetto che ha caratterizzato la «gestione» non propriamente esaltante è quello delle progressioni in carriera e delle nomine ai vertici locali e nazionali. A garanzia della «correttezza» formale e specialmente sostanziale dei provvedimenti e delle scelte sottostanti, è stata portata avanti l’anzianità, dato assolutamente oggettivo, ben noto, accertabile e soprattutto inflessibile. Ovviamente senza «comprovato demerito». Le contestazioni «ambientali» sono state notoriamente feroci. A nulla valendo l’obbiezione da parte dei favorevoli che il sistema era almeno obbiettivo e … non si prestava. Chiaramente, quanti erano e sono «nel sistema» eccepivano e contestano che sarebbero calpestati i più meritevoli. Fingendo di dimenticare che essi sono stati «giudicati tali» da chi era stato giudicato con analoghi elasticissimi criteri; tuttavia utili agli «inseriti» nel bizzarro gioco. Ne derivava, e ne deriva, una sorta di campagna elettorale alla ricerca di consensi utili e validi per l’ambito risultato. Con il risultato, già notorio, dello «scambio di favori». Perché tali erano e sono, indipendentemente dalla qualità del personaggio di volta in volta in questione.

Il Magistrato «deve» essere in condizione di svolgere correttamente la sua funzione. Gli si chiede distacco, autonomia e indipendenza, visti come doveri e non soltanto come scudo. I vecchi, saggi giuristi, si ripete, solevano dire che «il Giudice deve essere imparziale, ma deve anche apparire tale». Ma questo sistema causa spesso esattamente il contrario. Il Cittadino coinvolto in qualche vicenda giudiziaria penale, ma anche civile, brancola quando sente il proprio difensore chiedere al collega «ma il magistrato (cui è stato affidato il procedimento) di che corrente è?». Con quanto ne deriva, per fortuna non sempre. Criterio della anzianità, dunque, salvo «demerito», esso comprovato da decisioni giudiziarie irrevocabili o da pronunce disciplinari parimenti irrevocabili. Se non altro perché ogni magistrato in servizio si deve presumere idoneo ad ogni funzione che esso comporta: diversamente sarebbe giustamente cacciato. Tutto questo, renderebbe giustizia alle migliaia di magistrati che compiono correttamente la loro «unica» ed insostituibile funzione: quella di rendere giustizia ai Cittadini, senza ricercare attraverso questo delicatissimo percorso, qualcosa di altro, peggio se … appetibile. Fosse pure la propria carriera.

La Giustizia, in conclusione, non richiede dei «geni», ma dei giudici corretti e responsabili, che abbiano come loro finalità soltanto il corretto esercizio di questa Funzione. Nobile ed elevatissima se resa in questo modo e soltanto in questo modo.

Altro nodo cruciale, che si connette a tutti gli aspetti finora esaminati è quello delle modalità di elezione dei membri «togati» del Consiglio Superiore della Magistratura. Ciò perché, all’evidenza, ricorrono tutti gli elementi della analoga contesa in campo politico. Per essere eletto, anche nel caso del CSM occorre non soltanto essere «meritevole» (e ritenuto tale dalla maggioranza) ma anche, e soprattutto, essere personaggio «ben noto» non soltanto nell’ambiente giudiziario. Questo comporta non soltanto rapporti preferenziali con le «testate» importanti e soprattutto «di parte», ma anche posizioni di rilievo in ambito giudiziario. Ossia quelle che si ottengono non solo coltivando rapporti ma anche (specialmente i P.M.) occupandosi di indagini «appropriate». Il che, ovviamente, riporta al problema della assegnazione degli affari penali, e quindi ai criteri ed ai «capi». Come si vede, è tutto una sorta di inestinguibile groviglio di posizioni, rapporti, interessi e quant’altro. Che non contribuisce alla doverosa «limpidezza» della Giustizia, tale quale i Cittadini si attendono ed hanno diritto di attendersi.

Le modalità di elezione dei membri togati del CSM sono fra queste, per evidenti motivi. La stessa idea del «sorteggio», meccanismo usato ad esempio per i giudici popolari della Corte d’Assise è stata avallata da alcuni (anche ben noti magistrati) ma osteggiata furiosamente da altri, che evidentemente si giovano del «sistema correntizio» con quanto ne deriva. L’obbiezione si basa essenzialmente sul dettato dell’art. 104 della Costituzione che, in effetti, fa esplicito riferimento alla «elezione». Non determinandone, tuttavia, le concrete modalità. Inutile nascondersi che, nella pratica, il sistema del «sorteggio» sia stato particolarmente osteggiato dalle «correnti» (e qui torna ancora il «sistema» para-politico) più «politicizzate». Un magistrato ebbe a definire il «sorteggio» una «spaventosa macchina di tortura», restando, tuttavia, silente sulla sopravvivenza dei giudici popolari delle Corti d’Assise, del tutto equiparati nell’esercizio della delicatissima funzione, ai magistrati ordinari. Questo episodio manifesta il livello di opposizione al «sorteggio», condotta fino al ridicolo.

In verità, sovente si dimentica che la cosiddetta «culla della democrazia» prevedeva – nello schema ideato dalle riforme di Clistene del 508 a.C. – un funzionamento degli organi istituzionali di governo della città, nonché di amministrazione della giustizia, in cui il sorteggio giocava un ruolo dirimente. Soprattutto, e in particolar modo, per quanto riguardava il tribunale popolare, l’Eliea, composto da dieci membri estratti a sorte. Ma anche per quanto riguardava la Bulè, o consiglio dei 500, che aveva funzioni di iniziativa legislativa e di controllo.

Una proposta concreta potrebbe essere la seguente. I magistrati sarebbero chiamati ad «eleggere» su base distrettuale dieci colleghi facenti parte del distretto di appartenenza. Questo gioverebbe anche a garantire e implementare il proficuo e democratico rapporto fra gli «eletti» e la «base». Risulterebbero eletti su base nazionale 260 magistrati, ossia dieci per ciascuna delle 26 Corti d’Appello. Un numero abbastanza ampio per garantire la efficacia della fase successiva. Fra i 260 magistrati «eletti» si potrebbe procedere al sorteggio dei sedici membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura. Si agevolerebbe il rapporto fra la base e gli eletti, si garantirebbe la obbiettività della «scelta finale» e si ridurrebbe il più possibile l’influenza, francamente nefasta, dei «giuochi correntizi». Cioè proprio quello che le fazioni politicizzate aborriscono.

Per concludere, la nota vicenda rappresenta una grandissima irripetibile occasione per andare veramente e liberamente «fino in fondo», riscattando il Popolo Italiano e specialmente i magistrati che non si sono accodati al sistema e, possibilmente, lo hanno persino subito. La ventilata, difficile riforma dell’Istituto e della stessa Istituzione (con tutte le difficoltà di rango costituzionale che vengono sempre avanzate, non sempre disinteressatamente) non può prescindere, per ovvi motivi, da una completa, severa, imparziale indagine. Per capire dove e come si è sbagliato, così da erigere il «nuovo» in modo tale da non correre il rischio di ricadere. E, soprattutto, deve sfuggire al palese, pesantissimo ed assai grave potere di «influire» sulla Politica da parte del Potere Giudiziario.

Giuseppe Marciante

già consigliere di Corte d’Appello

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