E’ colpa dei magistrati se si vuole abolire la colpa

Angelo Buscema è un grande giurista ed è un grande presidente della Corte dei Conti. Per età e formazione esprime una Corte intesa come baluardo della legalità, del diritto e ovviamente della salvaguardia della contabilità pubblica. Angelo Buscema rappresenta tuttavia la Corte come dovrebbe essere, e come era. Fra il dover essere e l’essere purtroppo oggi passa una differenza abissale. Questa volta  comprendo dunque le ragioni del Governo quando propone di abolire la responsabilità per colpa grave nel caso di danno erariale. Lasciatemi riusare il termine “colpa”. Ebbene la “colpa”, se si è arrivati a questa proposta, non è del Governo, ma proprio della Corte dei Conti, o meglio di alcuni suoi esponenti. Ricorda bene Buscema il passo di Ulpiano. La colpa grave nasce nel diritto romano e in materia contrattuale si sviluppa in casi come il deposito. Contratto a titolo gratuito e dunque, nel caso di inadempienza del depositario cioè nel caso di mancata restituzione, con responsabilità solo per dolo. Ci mancherebbe! Già ti faccio il piacere di custodire un bene tuo senza guadagno alcuno e tu mi vorresti  rendere responsabile pure per una qualsiasi negligenza? I giuristi romani tuttavia ad un certo punto si accorsero che vi erano casi abnormi dove il non capire ciò che tutti intendono comporta una negligenza che confina con il dolo. Era il caso per esempio di colui che avesse custodito le candele accanto al focolare. Le candele si sciolgono e il depositario non le può restituire. Tutti sanno che il calore scioglie la cera! Sono, come ben si vede, casi estremi. Omnes dice Ulpiano, non aliqui o plerique. Tutti, ma proprio tutti. È chiaro dunque che in un caso siffatto il pubblico dipendente che cagioni danno senza intendere ciò che tutti intendono prima ancora che rispondere per il danno cagionato dovrebbe essere licenziato in tronco. E tuttavia oggi la giurisprudenza della Corte o almeno di una sua parte ha “abusato” del concetto di colpa grave. Per protagonismo, insipienza, o semplice “populismo”, l’animo umano è assai variegato quando porta sulla cattiva strada, alcuni magistrati contabili hanno iniziato a contestare la colpa grave anche di fronte a casi oggettivamente assai complessi e persino nel caso di interpretazioni assai contrastanti di sezioni diverse  della stessa Corte o in casi di normativa di assai dubbio significato. Si è arrivati persino a inventarsi una categoria che proprio non si può sentire quando si parla di responsabilità per danno: il dolo contrattuale. Orbene come insegnano i giuristi romani e come recepiscono tutti gli ordinamenti di derivazione romanistica, il dolo negoziale è causa di vizio della volontà e di annullamento del negozio giuridico, è la machinatio, sono gli artifizi e i raggiri per indurti a comprare una ciofeca e pagarla come fosse una cosa di pregio. Nel caso di responsabilità per danno l’unico dolo che viene in gioco è la intenzione malvagia, la coscienza e volontà di provocare quel danno. Io vengo addosso alla tua auto con la mia perché tu non mi hai dato la precedenza e io ti tampono apposta per vendetta. Oppure io ben conosco una certa normativa, che è d’altro canto chiara e da tutte le persone perbene rispettata, ma per lucro e vantaggio mio indebito, la violo e quindi cagiono un danno all’erario. Ma veniamo ad un caso concreto. Il legislatore ha scritto una norma semplice semplicel’art. 6 comma 10 della legge 240 del 2010:  “I professori e i ricercatori a tempo pieno, fatto salvo il rispetto dei loro obblighi istituzionali, possono svolgere liberamente, anche con retribuzione, attività di valutazione e di referaggio, lezioni e seminari di carattere occasionale, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale, nonche’ attività pubblicistiche ed editoriali”. Il testo è chiaro per ogni persona che non sia mossa da fumisterie esistenziali. L’attività di consulenza può essere svolta  liberamente anche laddove preveda una retribuzione. Punto. Liberamente significa che non è soggetta ad autorizzazione. Non si specificano limiti alla retribuzione. La particella “e” chiarisce che consulenza è qualcosa di distinto dalla collaborazione scientifica: sono per qualsiasi persona di buon senso due cose distinte. Del resto l’aggettivo “scientifica” è riferito solo alle collaborazioni. La relazione alla legge  tenuta in Senato è di una chiarezza esemplare: il legislatore ha inteso liberalizzare rispetto alla disciplina allora vigente, dare consulenze è una cosa positiva che arricchisce la società, diffonde competenze e crea ricchezza. Bene. Gli statuti di quasi tutte le università si adeguano e consentono consulenze a professori e ricercatori. Molti colleghi rilasciano consulenze, le dichiarano e ci pagano le tasse. Sono dei benemeriti. E invece si scatena l’inferno. Molti colleghi si svegliano con la guardia di finanza che picchia alla porta di casa. Oltre 1000 indagati, condanne pesantissime. Lo sputtanamento sui media dei singoli e di una categoria. Alcuni magistrati arrivano a contestare il dolo contrattuale cioè la volontà di violare la norma. Sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Una sezione della corte si inventa il limite dei 5000 euro massimi per consulenza. Oltre i 5000 euro ci sarebbe la colpa grave. Un’altra sostiene che la particella “e” sarebbe copulativa e dunque che le consulenze a cui il legislatore avrebbe pensato sarebbero della stessa natura delle collaborazioni, vale a dire non dirette a risolvere problemi concreti, ma esclusivamente di natura scientifica. Un’altra ancora afferma che se il compenso supera una certa entità allora si rientrerebbe nella professionalità esclusa dal legislatore. Un’altra che occorrerebbe comunque sempre la autorizzazione. Senza autorizzazione rispondi per danno. Ci sono stati casi di condanne anche per chi ha rilasciato consulenza ad enti pubblici territoriali, consulenze già ammesse dal regime precedente (sic!). Peccato che tutti questi esimi giuristi contabili non siano andati a leggersi cosa si intende per attività di consulenza professionale, significato egregiamente spiegato dalla legge del 2012 sulle professioni forensi. Insomma che c’azzecca la colpa grave in tutti questi casi? Dunque, caro presidente Buscema, le ipotesi sono due (e ovviamente mi si passi  la provocazione e l’ironia): o “riportiamo alla ragione” i magistrati contabili “estrosi”  o aboliamo la colpa grave. Tenere in scacco i pubblici funzionari da chi si inventa il dolo contrattuale io proprio non ci sto. Il rischio è, come dice benissimo, una volta tanto, Giuseppe Conte, che i pubblici funzionari per timore del danno erariale non decidano proprio. 


Giuseppe Valditara – Professore ordinario – Università di Torino 

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