Occupazioni, ecco perché la colpa presunta degli occupanti per i danni non è eversiva

Enrico del Prato
ordinario di Diritto civile Università la Sapienza di Roma

Il tema della devastazione delle scuole conseguente a occupazioni scolastiche è un tema serio. Il problema è ovviamente quello di provare la responsabilità degli autori. Una ipotesi potrebbe essere quella di immaginare una colpa presunta, salvo prova contraria, da collegare all’impedita vigilanza e custodia del bene a seguito della occupazione. Sul punto si sono letti interventi opinabili dal punto di vista giuridico.

Uno di questi è stato pubblicato su Domani del 20 febbraio 2024 e vi si afferma che una norma che preveda la responsabilità civile solidale di tutti coloro che hanno partecipato all’occupazione della scuola per i danni causati ai beni pubblici, salvo prova contraria, sarebbe in contrasto con i principi del diritto civile.

Si cita a supporto una sentenza (Cass. 5744/1993) che però non riguarda affatto l’onere della prova, ma tutt’altro. Ecco la massima: “La legittimazione all’opposizione al decreto di ammortamento compete unicamente al detentore del titolo, non già a tutti gli obbligati risultanti dallo stesso, i quali, dopo la pronunzia del decreto, possono proporre le ordinarie azioni di impugnazione e, in particolare, quella di accertamento negativo per far riconoscere l’inesistenza del titolo ammortizzato. In quest’ultima azione, la difficoltà dell’onere probatorio – consistente nella dimostrazione dell’inesistenza del titolo – non deriva da una particolare efficacia del decreto di ammortamento e non determina, quindi, un’ingiustificata limitazione della tutela degli emittenti-debitori dell’assegno” (Cass. 20.5.1993 n. 5744).

La questione è ben indagata, in via generale ed in una prospettiva comparatistica, da G.E. Napoli, Il danno cagionato da un soggetto non individuato di un gruppo, in Studi in onore di A. Cataudella, a cura di E. del Prato, II, Napoli, 2013, 1531 ss.

Ne riporto le conclusioni essenziali.

Questo saggio è essenzialmente incentrato sulla responsabilità ex art. 2050 c.c. La nostra giurisprudenza se ne è occupata con riferimento alle attività pericolose (art. 2050 c.c.), tra cui, però, non si colloca a prima vista l’occupazione di un istituto, in quanto la pericolosità deve essere insita nella natura dell’attività o in quanto prevista come tale dalla normativa sulla pubblica sicurezza, anche se, va rilevato, la giurisprudenza tende ad ampliare lo spettro applicativo della norma riferendola anche al caso di operazioni abusivamente effettuate con strumenti elettronici (Cass. ord. 12.4.2018 n. 9158; Cass. 3.12.2017 n. 2950).

Il problema si è posto per l’attività venatoria in un caso in cui si trattava della impossibilità di individuazione del soggetto che, nel partecipare ad una caccia di gruppo, aveva causato il ferimento di un altro. Trib. Monza, 4.4.1991 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2050 c.c. nella parte in cui non prevede la presunzione di responsabilità di tutti i soggetti che partecipano all’attività pericolosa qualora risulti impossibile la specifica individuazione del diretto danneggiante, che la Consulta (sentenza 4.3.1992 n. 79) ha ritenuto inammissibile sul presupposto che l’inversione dell’onere probatorio prevista dall’art. 2050 c.c. “attiene all’elemento soggettivo della colpa e non già al nesso di causalità che lega la condotta all’agente, costituente esercizio di attività pericolosa, all’evento dannoso”, poiché il danneggiato resta onerato della prova che il danno è derivato dall’attività pericolosa.

Nella prospettiva dell’art. 2050 c.c. Napoli osserva che “Con riguardo alla responsabilità per danno cagionato da attività rischiosa di gruppo lo strumento delle presunzioni assume in alcuni casi fondamentale rilievo quando non si ha la certezza neanche sul rapporto tra l’attività, nel complesso, esercitata dal gruppo e il danno. Si può infatti facilmente considerare che, se si tratta di danno rientrante tra quelli potenzialmente causabili in astratto da un’attività dello stesso tipo, ne discende appunto la presunzione che il danno è stato prodotto proprio dalla stessa. La responsabilità cosí trova base sul nesso oggettivo tra l’attività (vista nel suo complesso), fonte di rischi, esercitata in gruppo, e il danno. Ritenuto sussistente tale nesso restano invece da ripartire gli obblighi risarcitori sulla base dell’elemento, che è invece soggettivo, della colpa, qualora se ne riscontri la sussistenza, ovvero del rischio posto in essere da ognuno dei partecipanti”.

Richiamando la decisione della Corte costituzionale Napoli conclude che “Quando non è possibile individuare il nesso tra l’attività pericolosa di un soggetto e il danno, in quanto non sia possibile tra piú soggetti individuare il danneggiante diretto, come nel caso sopra esposto che è stato sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale, non è di conseguenza nemmeno possibile, per il soggetto chiamato in causa in via solidale, provarne l’assenza. Se il con venuto riesce invece a provare la mancanza di un nesso scientifico con la propria condotta, nasce l’onere di chiamare in causa gli altri partecipanti, i quali devono provare, a loro volta, la mancanza di nesso in relazione al loro specifico comportamento. È facile constatare come, con un ragionamento di questo tipo, in considerazione della peculiare ripartizione degli oneri probatori propria di questo settore, chi non riesce a provare l’assenza del nesso con riguardo al proprio comportamento sarà tenuto al risarcimento. Con riguardo all’ordinamento francese, è stato a tal proposito affermato che se il danneggiato prova che tutte le condizioni della responsabilità, sia scientificamente causali sia riguardanti l’elemento soggettivo dell’illecito, conducono contro un membro ideale del gruppo, cioè contro un soggetto non identificato che ha operato in un gruppo, l’identificazione dell’autore materiale sarà ormai onere dei singoli membri del gruppo stesso. Si ha responsabilità solidale tra tutti i partecipanti, a meno che qualcuno di essi riesca a provare che egli di sicuro non ha commesso il fatto – dimostrazione che comporta la ben piú rigorosa prova di non aver potuto in alcun modo commettere il danno) – o che il danno è stato direttamente causato da un ben individuato membro (anche tale dimostrazione, implicando la prova di fattori di diretta causalità scientifica esclusiva tra uno dei partecipanti e il danno non è di facile realizzazione)” (p. 1555).

Se, dunque, una responsabilità solidale può affermarsi nel caso di attività pericolose in applicazione dell’art. 2050 c.c. (e v., in materia di rissa, Trib. Vasto, 22 aprile 1997, in P.Q.M., 1997, 2, 57: “Sussiste la responsabilità civile di tutti i corissanti per le lesioni personali patite da un soggetto estraneo alla rissa ed inferte da uno degli agenti, rimasto non identificato, posto che la situazione di pericolo all’altrui integrità fisica ingenerata dalla rissa si pone come antecedente logico senza il quale, nella sequenza causale ininterrotta, non si sarebbe verificato l’evento dannoso”), più complessa ne è l’affermazione generalizzata.

Tuttavia, una volta provato il nesso di causalità dall’attività di gruppo,  due indici depongono nel senso della presunzione di responsabilità e della conseguente solidarietà debitoria.

Il primo risiede nell’affermazione che “le fattispecie normative che prevedono una responsabilità oggettiva non siano eccezionali, ma integrino un diverso criterio di responsabilità parallelo a quello previsto dall’art. 2043 c.c. e basato fondamentalmente sull’allegazione di un nesso tra attività di un soggetto e evento dannoso. Non essendo eccezionali tali norme possono quindi essere applicate anche in via analogica” (Napoli, 1550, citando le note monografie di P. Trimarchi del 1961, Rischio e responsabilità oggettiva e quella di S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, 1967). È chiara esplicazione di questo orientamento l’estensione dell’art. 2050 c.c. alle operazioni abusivamente effettuate con strumenti elettronici (Cass. ord. 12.4.2018 n. 9158; Cass. 3.12.2017 n. 2950), come dicevo sopra, a cui è estranea, evidentemente, ogni intrinseca pericolosità.

Il secondo indice è dato dal fatto che la relazione tra scuola e esercenti la responsabilità genitoriale (per i minori) e studenti (se maggiorenni) è materia di un vincolo obbligatorio, dal quale germinano doveri di protezione reciproci (e, infatti, sono sovente invocati a carico della scuola), la cui violazione non è retta (per dominante affermazione dottrinale prima e giurisprudenziale poi) dalle regole della responsabilità aquiliana, ma da quelle dell’inadempimento dell’obbligazione (art. 1218 c.c.), con la conseguenza che i soggetti tenuti alla protezione (in concreto a preservare i beni scolastici) possono andare esenti da responsabilità solo se provano la loro estraneità al fatto dannoso, cioè che lo stesso non era loro imputabile. In questa prospettiva la prova liberatoria a carico del partecipante all’attività è più attenuata rispetto a quella prevista dall’art. 2050 c.c., perché qui si occorre provare “di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”, mentre nel caso dell’art. 1218 c.c. (la c.d. responsabilità contrattuale, che, invero, è da inadempimento di un’obbligazione) la prova liberatoria è data dall’impossibilità di impedire il fatto dannoso, secondo un modello affine a quello previsto, in tema di illecito extracontrattuale, dall’art. 2051 c.c.

In entrambi i casi opera la solidarietà debitoria, salva la prova liberatoria da parte del singolo.

Riporto quanto leggo in Napoli (1546 s:). “Per superare gli ostacoli che sorgono nell’applicazione della responsabilità per attività pericolosa, si può seguire una via diversa da quella intrapresa nel caso sottoposto all’esame della Consulta, fondando piuttosto l’imputazione sulla colpa dei soggetti. (…) “in dottrina si registra un’autorevole interpretazione in direzione della risarcibilità: si è infatti precisato come nel caso di azione comune posta in essere da un gruppo di persone non sia da escludere la responsabilità solidale di tutti i partecipanti sulla base dell’art. 2055 c.c., quando non sia possibile identificare il soggetto, membro del gruppo, che ha direttamente causato il danno: tale responsabilità solidale si ravvisa nel rischio specifico, di verificazione del tipo di danni di quello effettivamente prodottosi, posto in essere da chi partecipa attivamente a una attività di gruppo che sia oggettivamente idonea a cagionare tale tipo di danni” (C.M. Bianca).

Per concludere: una norma che sancisse la responsabilità solidale degli occupanti per i danni causati alle strutture scolastiche, salva la prova liberatoria dell’estraneità al fatto dannoso e salvo, ovviamente, il regresso nei rapporti interni, non appare eversiva del sistema, ma piuttosto una esplicazione di principi e regole in esso insiti.

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