Evasione fiscale, la sfida del concordato

Raffaele Fiume
ordinario di economia aziendale presso l’Università Parhenope di Napoli

L’Italia è un Paese ad alta evasione fiscale.

Le migliori stime valutano su base annua i tributi non pagati tra 80 e 100 miliardi, a fronte di incassi complessivi dello Stato per circa 500 miliardi. L’economia criminale si aggiunge.

Contro questo bubbone enorme si muove con energia la macchina dei controlli, che si fonda su uno dei sistemi informatici più grandi e sofisticati al mondo. Ma l’azione resta inefficace.

Intervenendo a Telefisco 2024, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini ha parlato di 1.200 miliardi di crediti fiscali, incorporati in circa 160 milioni di cartelle esattoriali; di questi, avrebbe qualche chance di essere incassato solo l’8,4%.

La fotografia impietosa è quella di un Paese con un’evasione fiscale tanto vasta ad non poter essere arginata con gli strumenti e secondo le logiche fino ad oggi impiegati. Continuare a mostrare i denti, con ghigno arcigno è non solo triste, ma soprattutto inefficace.

I sistemi fiscali degli Stati moderni si fondano sull’adempimento spontaneo.

E’ evidente che la scarsa compliance fiscale è legata ad atteggiamenti emotivi come il basso senso civico, la percezione dell’eccesso di pressione tributaria, l’insoddisfazione per i modi con cui lo Stato spende i soldi che incassa. In sintesi: sfiducia per lo Stato.

La proposta del concordato fiscale avanzata dal Governo ha il merito di provare a sovvertire questo paradigma, mostrando uno Stato che tende per primo la mano al contribuente per cercarne l’accordo.

L’idea e’ di proporre al contribuente un accordo biennale sull’ammontare delle imposte fa pagare, a prescindere dai redditi che questi conseguirà. In cambio di questa adesione, il contribuente gode del beneficio di una sensibile riduzione dei controlli fiscali ed ha la certezza degli importi da pagare anche al fisco potendo, cosi’, meglio programmare la propria attività. Lo Stato, dall’altra parte, si garantisce entrate sicure e riduce la platea dei soggetti da vigilare potendo, cosi’, meglio esercitare le sue funzioni di accertamento.

Questo strumento già fu adottato da Tremonti venti anni fa, ma raccolse risultati modesti. 
Oggi, promette Maurizio Leo, sarà possibile elaborare proposte mirate, personalizzate, costruite grazie l’aiuto dell’enorme quantità di dati presenti nell’anagrafe tributaria; la promessa è di rendere appetibile l’accordo per i contribuenti, secondo una logica di gradualità; l’aspettativa è di un significativo incremento di gettito.

La filosofia sottostante, l’idea di rafforzare il rapporto fiduciario tra Stato e contribuente è certamente meritoria e condivisibile.

Tra l’idea di fondo e il suo successo c’è una distanza che può essere colmata solo dai profili che concretamente assumerà il concordato; profili che allo stato sono ignoti. Tutto si giocherà sull’entità della pretesa tributaria, sugli incentivi legati all’adesione e sulle possibilità di uscire dal concordato in caso di redditi marcatamente inferiori al previsto.

Avrà successo se riuscirà ad attrarre nella sfera di un migliore rapporto con l’Erario i soggetti che ne sono molto distanti. Altrimenti, si tradurrà nell’ennesimo modo di rimodulazione del calcolo delle imposte per chi ha già un buon livello di compliance.

I numeri snocciolati da Ruffini sembrano dimostrare la convenienza dell’evasione. Il tema di fondo, concordato biennale o meno, resta la credibilità dello Stato.

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