Emanuela Andreoni Fontecedro, Professore Senior presso l’Università di Roma Tre
Nel campo della comparatistica, possiamo dire, ‘verticale’, perché opera sulla diacronia, avviene il contatto con i testi che hanno fondato la cultura occidentale. È così che apprendiamo che sul Somnium Scipionis (parte conclusiva del De Republica di Cicerone salvatasi dalla scomparsa del resto dell’opera che durò per secoli) prende inizio la letteratura francese (citato ad incipit del Roman de la Rose da Guillaume de Lorris); così come accade per quella inglese con i dream poems di Chaucer (si vedano le ampie citazioni di The House of fame e The Parliament of Fowls).
Virgilio fu autore amatissimo non solo da Dante ma fino all’età moderna. Borges riteneva insuperado il versocon cui il poeta descrive nel sesto libro dell’Eneide, l’ingresso di Enea e della Sibilla nell’Ade: ibant obscuri sola sub nocte per umbram (v. 268) L’ipallage scambia gli aggettivi con effetto dirompente. Coleridge adattando un epigramma di Wernicke ( 211 Rhamler) lo amplifica testualmente con Virgilio, sì da intitolare il suo epigramma 319 Virgil’s obscuri sub luce maligna, after Wernicke, dove fondeva suggestioni dal primo verso con questo che segue: quale per incertam lunam sub luce maligna / (est iter in silvis), ib.270. Incerta riferito alla luna resterà un topos per celebri autori tra cui vanno evidenziati: Ariosto, la traduzione dei Canti di Ossian di Cesarotti che appunto amplifica il testo di Macpherson con l’aggettivo incerta, Goethe (Werher) Foscolo, Leopardi. Mallarmé riprenderà l’aggettivo malignus che Servio aveva bisogno di postillare con angustus scrivendo: quand la lune maligne rit. (Chanson d’un fol II)
Yeats (fine ‘800 – inizi ‘900) intitolava, citando Virgilio, una sua raccolta di divagazioni sulla morte, l’amore, la maschera e la visione: tacitae per amica silentia lunae ( Aen.2,255). Omaggio e condivisione di sensazione con Virgilio quando descrive, la notte in cui le navi dei Greci riportano dalla vicina isoletta di Tenedo, dove per inganno si erano nascosti, i guerrieri per l’ultima notte di Troia. Se Servio commentando Virgilio sosteneva il significato del ‘silenzio’ della luna come un riferimento al novilunio (così lo seguirà Milton), la cultura moderna invece sente proprio con Virgilio (il poeta infatti aveva accennato che nella notte ultima di Troia c’era la luna, cfre. oblati per lunam ib.2,340) la tattilità della luce pallida della luna in un paesaggio di silenzio. Sensazione tattile della luce lunare che anche altra volta Virgilio narra per l’astro nel suo splendore: plena per insertas fundebat luna fenestras( Aen.3,152).
La luce fessurata ha uno spazio a sé nella scrittura poetica dove suscita emozione. L’immagine era stata colta (secondo la testimonianza di Aristotele) dai Pitagorici che nel pulviscolo illuminato dal sole vedevano muoversi le anime, ma che poi Democrito aveva corretto in atomi di materia. Così Lucrezio: cum solis lumina cumque inserti fundant radii/ per opaca domorum / multa minuta…/ corpora 2,114 – 117.
La luna che filtra nelle fessure delle imposte sarà motivo per es. di Properzio diversas praecurrens luna fenestras ( 1, 3, 31), come di Proust: le clair de lune appuyé aux volets entrouverts (La Prisonnière). E scivola con la stessa intensità facilitata da un comune contesto quasi a gesto d’amore, in un refrain di Ferdinando Russo: a luna d’a notte serena,/ reggina d’o cielo stellato,/menava int’a stanza ‘ni raggio ndurato/ io tutto incantato te stavo a guardà (‘A luna ‘ vv1-4).
La possibilità di un’eco letteraria tra i testi non è mai da sottovalutare, pur riconoscendo l’universalità delle emozioni.
Rientra nel campo dell’eredità classica non soltanto la citazione omaggio che l’autore moderno compie quando fa suo un vocabolo o un sintagma caratterizzante la scrittura dell’autore antico ma anche, e con altrettanta forza e vivacità, il dialogo che l’autore moderno instaura con il testo del passato, spesso con l’intento di mettere in evidenza proprio il confronto tra epoche.
Faccio riferimento per esempio alla narrazione di Filemone e Bauci, l’anziana coppia, che Ovidio fa protagonisti nell’ottavo libro delle sue Metamorfosi. Se l’ambientazione e la sua atmosfera hanno tutto il gusto alessandrino dell’Ecale di Callimaco: la vecchietta, la piccola, povera casa, il giaciglio nell’angolo (il confronto è limitato causa la perdita di gran parte del poemetto greco), il plot è più antico, perché lo si ritrova nel Mahabaratha. Si tratta della visita degli dei agli uomini, par saggiare se sono giusti, virtuosi. Gli dei di Ovidio sono Giove e Mercurio, nel testo scritto in sanscrito Agni e Indra che visitano il re Sibi ( Usinara). Nel testo latino gli dei si presentano in veste di viandanti, nel Mahabaratha sotto le forme di una colomba e di un falco. Il poeta latino descrive la cena che condividono i due vecchi con gli dei, la loro generosità pur con il poco che possono offrire. Vorrebbero sacrificare anche l’unica oca che hanno per imbandire una cena migliore. L’oca si rifugia presso gli dei, allo stesso modo in cui nel poema indiano la colomba si rifugia presso il re, qui appositamente attaccata dal falco: uno strattagemma messo in atto dagli dei per verificare il senso di giustizia del re. Nel poema indiano si instaura una discussione filosofica sulla giustizia. Gli dèi invece della Metamorfosi premieranno Filemone e Bauci trasformando la loro capanna in un tempio e il tetto già di paglia baluginerà in oro e regalando loro, come richiesto, di morire nello stesso momento, per non soffrire. Seguirà la trasformazione in una quercia e in un tiglio. Tutto il villaggio che aveva rifiutato di aiutare gli dei sarà sommerso dalle acque. L’era cristiana farà di Filemone e Bauci la coppia modello e il mito sarà fatto proprio dalle varie arti: Rubens, Schumann, La Fontaine, mentre si profila su altro versante la ripresa di Goethe.
Gli dèi nel Faust sono sostituiti dalla figura di Mefistofele, cui Faust ha venduto la sua anima. Pertanto perseguita i due vecchi perché vuole impossessarsi, pur latifondista, della loro capanna. Non riuscendoci darà fuoco a cose e persone. Ai bagliori dell’oro del mito si contrappone ora il bagliore del fuoco: die Flamme flammet. Brecht invece nel Der Mensch von Sezuan risale al plot del mito, cioè alla visita degli dèi, qui in numero di tre, con allusione alla Trinità cristiana. Anche qui hanno vesti da viandanti e nessuno vuole accoglierli, tranne, infine, una prostituta. L’indifferenza degli uomini verso gli dèi, anche se indicati in quanto tali da un battistrada, sarà ripagata dagli dèi con la stessa indifferenza stabilita ora sine die nei loro confronti, mentre risalgono in cielo.
Non basta. Questa deriva dalla morale che ispirava la pagina ovidiana, si attua tanto più nel 1993 con Rolf Hochhuth che scrive Wessis in Weimar: Szenen aus einem besetzen Land, un atto di ribellione all’unificazione delle due Germanie voluta dal cancelliere Helmut Kohl, in cui si accusa la FDR di prevaricare sulla DDR. Emblema la piccola casa che appartiene a una coppia di anziani che essendo loro impedito di continuare ad occuparla si suicidano.
Il mito è stravolto. Non solo perché ora non esistono più gli dèi, ma soprattutto si ignorano la pietà, il senso di giustizia.
Gli dèi erano garanti di virtù ma le età dell’uomo si sono succedute e dall’irrisione di Mefistofele si registra una caduta senza fine. Al cielo atono,all’indifferenza che scioglie ogni relazione tra gli uomini e gli dèi, risponde l’ultima battuta che spetta al suicidio, come unica via di uscita per gli esseri umani.
Lo studio in diacronia delle letterature, della filosofia, il dialogo che si intreccia tra testi ed autori rende palpabile e universale la vicenda umana intrisa di tempo. E questo compito attribuito alle humane litterae, crea la mente e l’anima di chi le frequenta
Si veda anche Latino con entusiasmo