Integrazione e classi ghetto, la lezione americana

Mario Comba
professore ordinario di diritto pubblico comparato, Università di Torino

Tutti hanno visto le fotografie della piccola Linda Brown la quale, nel 1954, entra nella scuola di Topeka (Kansas) scortata dai militari della Guardia nazionale. Si tratta di una iconica rappresentazione della lotta alla discriminazione razziale, che ha dato avvio al processo di desegregazione negli Stati Uniti dove, nonostante l’abolizione della schiavitù a seguito della guerra civile, il razzismo era ancora molto diffuso e l’aparthied applicato in ampissimi settori della pubblica amministrazione e della vita civile, tra i quali in primo luogo la scuola.

In effetti la scuola è sempre stata il principale strumento attraverso il quale costruire l’integrazione di popoli, razze, lingue, tradizioni culturali e religioni diverse all’interno di uno Stato. Non a caso il lungo e tormentato percorso realizzato negli Stati Uniti – e non ancora completato – per l’integrazione razziale nei confronti della popolazione afroamericana ha avuto inizio proprio con la storica sentenza Brown v. Board of Education of Topeka (1954), con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso all’unanimità che la legislazione dello stato dell’Arkansas, la quale imponeva scuole separate per i bianchi e per gli afroamericani, violava la Costituzione federale ed ha consentito a Linda Brown di frequentare la scuola per bianchi del suo quartiere.

La Corte Suprema superò così la sua precedente decisione del 1896 (Plessy v. Ferguson), con la quale aveva stabilito il diverso principio cd. separate but equal, secondo il quale la separatezza delle scuole non comportava una violazione del principio di uguaglianza, a condizione che il livello di prestazioni scolastiche fosse uguale.

Tuttavia la sentenza Brown, pur avendo stabilito un principio di uguaglianza formale – consistente nel divieto per le scuole di discriminare le iscrizioni sulla base della razza – non ottenne l’effettiva eliminazione della discriminazione, in quanto di fatto le scuole continuavano ad essere separate. Infatti la distribuzione della popolazione residente, soprattutto negli Stati del Sud, era fortemente polarizzata e dunque le scuole collocate nei quartieri a totale o prevalente composizione di afroamericani erano inevitabilmente frequentate solo da tali studenti.

Fu così necessaria una seconda decisione della Corte Suprema, emessa l’anno successivo (Brown II, 1955) con la quale venne ordinato alle amministrazioni scolastiche di provvedere alla effettiva modificazione dell’organizzazione scolastica in modo da consentire la creazioni di classi miste. In una serie di sentenze successive, la Corte affrontò il difficile tema relativo all’individuazione dei meccanismi e delle procedure per garantire una equilibrata composizione delle scuole. Tra le molte decisioni, nel caso Swan v. Charlotte (1971), la Corte stabilì che la presenza di scuole “substantially disproportiionate in their racial composition” era chiaro indice di segregazione e doveva essere evitata per quanto possibile, anche facendo ricorso a criteri matematici nella composizione delle scuole. Addirittura, la Corte arrivò a sostenere la decisione del Distretto scolastico di organizzare un sistema di trasporto pubblico e gratuito tramite autobus per consentire una più equa e proporzionata distribuzione degli studenti tra scuole vicine.

Ovviamente la Corte non arrivò a determinare quale fosse la “giusta” composizione delle classi, che rimase e rimane tuttora nell’ambito della discrezionalità delle autorità scolastiche, ma stabilì un principio fondamentale, secondo il quale è sempre necessaria un’equilibrata composizione delle classi scolastiche per evitare la discriminazione di fatto e, di converso, si devono evitate classi nella quale sia prevalente una sola componente di studenti.

Che cosa ci può insegnare la storia della desegregazione scolastica negli Stati Uniti, con la sua ormai settantennale esperienza?

Certamente il punto di partenza è diverso da quello che si può trovare in Europa, ed in Italia in particolare, dove la segregazione scolastica non esiste. Se però si affronta il problema in termini di uguaglianza sostanziale (art. 2, comma 3 della Costituzione), si possono trarre spunti utili. Esistono in Italia alcune scuole nelle quali la presenza di studenti immigrati di prima o seconda generazione è di fatto prevalente ed in tali scuole i risultati INVALSI sono mediamente inferiori a quelli delle altre scuole. Questi dati – peraltro non certo sorprendenti –  consentono di affermare che in tali scuole non vengono rispettati nemmeno gli standard che erano stati stabiliti dalla Corte Suprema per le scuole americane in base alla dottrina del separate but equal (1896), perché in Italia esistono scuole che sono di fatto separate (in quanto sono frequentate in grande maggioranza da studenti immigrati) e tali scuole non garantiscono i medesimi risultati, in termini di risultati educativi, rispetto a quelle frequentate in prevalenza da italiani.

E’ questa la grave situazione alla quale bisogna reagire.

Per superare tale inaccettabile realtà, negli Stati Uniti la Corte Suprema aveva affermato già nel 1971 (Swan v. Charlotte) che l’imposizione di quote nella composizione delle classi era un utile punto di partenza per correggere situazioni di segregazione esistenti di fatto, secondo la nota teoria delle azioni positive. E’ dal 1971 che tale strumento viene utilizzato per desegregare le scuole americane ed infatti è sempre stato fortemente osteggiato, talora anche con metodi violenti, dalle organizzazioni dei genitori che volevano mantenere il privilegio di scuole non integrate.

Pare talmente evidente da non dover essere ribadito – ma talune polemiche recenti lo richiedono – che cercare di evitare classi interamente o prevalentemente composte da immigrati sia una disposizione a favore dell’integrazione e non invece a favore della segregazione. La posizione contraria, quella cioè della indifferenza rispetto alla composizione delle classi, nasconde un atteggiamento che favorisce la discriminazione, perché, escludendo ogni iniziativa per contrastare la formazione di classi con prevalenza di immigrati, le destina inevitabilmente ad ottenere risultati inferiori alla media.

A dimostrarlo stanno non solo settant’anni di storia costituzionale americana, ma anche la semplice logica, oltre che i dati INVALSI. E tale considerazione è tanto più vera se si considera che, mentre negli Stati Uniti non vi era il problema linguistico in quanto gli afroamericani parlavano l’inglese, il caso italiano, come quello di molti altri paesi europei, è reso più complesso dalla necessità di consentire agli studenti immigrati, che non ne siano in grado, di imparare l’italiano come strumento indispensabile per raggiungere l’effettiva integrazione. Poi, naturalmente, ci sono le difficoltà operative per realizzare l’auspicato equilibrio nella formazioni delle classi. Anche in questo soccorre l’esempio americano che dagli anni ’60 ha sperimentato diverse soluzioni, come anche quello di altri paesi europei che hanno realtà più simile alla nostra. Ciò che però rimane fermo è non solo la legittimità ma la doverosità di un intervento pubblico per garantire l’equilibrata composizione delle classi al fine di perseguire una vera e sostanziale integrazione tra gli studenti, valorizzandone la diversità e la reciproca comprensione.

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